Res Publica: quante sciocchezze per distoglierci dal vero

Il brillante pezzo di Ciro De Florio (VP Plus 121) sul rapporto tra logica e campagna elettorale riformula un problema vecchio di secoli. Che rapporto tra filosofia e politica? Le vicende del buon Platone invitano a un sano scetticismo circa le capacità dei filosofi di capire o gestire la cosa pubblica, perlomeno quando si tratta di fare politica davvero.
Non a caso l’arte del governo è oggetto di studio precipuo della scienza politica, che sonda i rapporti complessi tra razionalità e passioni, tra immaginazione e intelletto, tra immagini e convinzioni. La logica – come nota De Florio – ci porta rapidamente a scorgere banalità e nonsenso laddove ci si aspetterebbe un minimo di serietà, di razionalità oggettiva, di appello a ciò che può essere verificato e corroborato dai fatti.
Il problema è che la razionalità oggettiva, l’onestà intellettuale, il richiamo alla verità delle informazioni cozzano con la tendenza alle sciocchezze di cui parlava un libretto di Frankfurt, che ebbe una certa fortuna in Italia sedici anni fa. Le sciocchezze (bulls**t nell’originale, da tradurre propriamente con str****te) sono quelle affermazioni che mirano a distrarre l’interlocutore dalla questione della verità di quanto viene affermato. Sono artifici retorici ben precisi: il richiamo a obbiettivi condivisibili (aiutiamo famiglie e imprese) non serve a indicare quel che si vuol fare (non viene detto come si vuole aiutare) ma a stabilire un rapporto di autenticità e vicinanza all’elettore. È una comunicazione calda, che punta a presentarsi come una testimonianza autentica di impegno.
Il motto di chi semina sciocchezze è il perennemente ripetuto “ci metto la faccia”: non importa se quel che dico è vero, ma io mi impegno in prima persona. Una frase più adatta a un imbonitore da fiera che a un politico d’antan: è difficile immaginare i leader del passato ripetere stancamente questa formula ormai ritrita.
Che cosa spiega quell’indebolimento della razionalità che porta ai paradossi del discorso elettorale? Non è certo il compito di queste poche righe: per quello ci sono, come già detto, gli scienziati politici. Si può però accennare a un fatto curioso: l’epoca in cui viviamo sembra aver depotenziato quel legame tra testimonianza e verità, che ha costituito un asse della nostra civiltà per millenni. Il testimone, il martire, è colui che è disposto a dare la vita per qualcosa: l’autenticità della sua dedizione è commisurata alla verità delle sue parole. Se però si dimentica il richiamo alla verità – e a tutto quel che logicamente le è collegato, compresi autoreferenzialità e paradossi – si fa leva solo sull’autenticità. Il testimone si trasforma così in qualcuno che, a parole, si gioca tutto su qualcosa di momentaneo. Proprio come il venditore che, al mercato, grida le benefiche virtù del suo prodotto, sicuro che nessuno si metterà a misurarne l’efficacia o la qualità.
Il ridicolo accompagna questi venditori. Spesso accade anche ai politici che si comportano in quel modo. Tuttavia, mentre non mancano le possibilità di verificare se quel che dicono è vero (ci sono siti dedicati al fact-checking), chi vi si dedica è già un compratore/elettore accorto. Ce ne sono molti altri per i quali la vendita va bene così com’è, perché sono coinvolti dall’onda emotiva di chi parla. Non c’è logica che tenga: it’s politics, baby.
Roberto Presilla
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