Scuola e digitale, divieto o libertà?

Scuola e digitale, divieto o libertà?

25.02.2023
di Simone Biundo

«Prof, ma se Amadeus si fa aprire il profilo Instagram da Chiara Ferragni e fanno le dirette mentre sono in tv, perché noi non possiamo usare il cellulare in classe?», mi è stato chiesto da un alunno nella settimana immediatamente successiva al Festival di Sanremo.

E, in effetti, nel mondo iperconnesso in cui presidentesse e presidenti del consiglio, ministri e ministre, presentatori e presentatrici, infermieri e infermieri, insegnanti e financo soldati e soldatesse assieme a ogni genere di modello di riferimento pubblicano e testimoniano attraverso una sequela sempre in evoluzione di social, Be real, Tik Tok, Instagram, per citare solo gli ultimi noti, la loro quotidiana vita lavorativa e privata, perché questo stesso uso deve essere proibito a chi studia, nel luogo in cui apprende?

Poco più di due mesi fa, il 19 dicembre 2022, il Ministro dell'Istruzione ha vietato in via generale l'uso del telefono in classe perché «l’uso del cellulare e di altri dispositivi elettronici rappresenta un elemento di distrazione sia per chi lo usa che per i compagni, oltre che una grave mancanza di rispetto per il docente configurando, pertanto, un’infrazione disciplinare sanzionabile attraverso provvedimenti». Nella stessa comunicazione, alquanto contradditoria, si legge tuttavia che i dispositivi a scuola non sono del tutto vietati, in quanto, «viceversa», possono essere usati quali strumenti compensativi «nonché, in conformità al Regolamento d’istituto, con il consenso del docente, per finalità inclusive, didattiche e formative, anche nel quadro del Piano Nazionale Scuola Digitale e degli obiettivi della c.d. “cittadinanza digitale». Il documento ministeriale si premura inoltre di fornire una relazione del 9 giugno 2021 dal titolo Sull’impatto del digitale sugli studenti con particolare riferimento ai processi di apprendimento che termina equiparando gli effetti del digitale, per le «stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche» a quelli causati dalla cocaina: sicché i «giovani» diverrebbero «schiavi resi drogati e decerebrati: gli studenti italiani. I nostri figli, i nostri nipoti. In una parola, il nostro futuro». Una conclusione inquietante, per un ammasso di informazioni che lascia interdetti su parecchie questioni.

Oltre allo stile retorico nei toni e nei contenuti, difatti, leggendo le disposizioni ministeriali e tenendo anche in considerazione il piano Scuola 4.0, predisposto in attuazione al PNRR e centrato sulla trasformazione delle aule di insegnamento in ambienti fisici e digitali di apprendimento, promuovendo un ampio programma di formazione alla transizione digitale di tutto il personale scolastico, viene naturale riflettere sull’incoerenza ministeriale e domandarsi quale sia la direzione giusta da prendere come docente.

Alla domanda dell'alunno non ho dato immediata risposta. Ho preso tempo, e ho detto che avrei dovuto pensarci perché sui divieti è necessario sempre interrogarsi. Ci sarebbero state però anche altre possibili repliche: che a scuola il digitale è riservato agli adulti, dal momento che i giovani lo usano già tutto il giorno, o che i social non sono utili all’apprendimento o altre amenità più o meno trancianti.

A scuola, in certe circostanze e soprattutto dopo la pandemia di Covid-19, l’uso degli strumenti informatici è già comunque promosso e incentivato: gli stessi docenti ne fanno uso in aula, attraverso la LIM, il registro elettronico, il vocabolario e i libri di testo digitali, al punto che lo stesso documento di valutazione finale è smaterializzato e scaricabile. Ma quali sono i rischi di vietare, disincentivare o mantenere una posizione equivoca sull’uso del cellulare o del tablet in classe?

In prima battuta, questa ambiguità potrebbe essere ritenuta un segno di ipocrisia e disequilibrio; un grave segno di disattenzione da parte dell'istituzione scolastica che dovrebbe formare lo stare nel mondo in modo consapevole e informato.

Se dal quinto rapporto Auditel-Censis si apprende che quasi il 40% del territorio nazionale è in uno stato di arretratezza digitale, non deve essere la scuola un luogo da dove cominciare per colmare l'assenza di competenze digitali, investendo sugli strumenti, sulla copertura internet, su corsi di formazione e di aggiornamento?

Ho sempre pensato che la classe dovesse essere uno spazio protetto dalle distrazioni di fuori: mi sono accorto che con questa convinzione la scuola rischia di arrancare, di diventare – a suon di divieti, di mancanze di fondi e di investimenti, di nascondere la testa sotto la sabbia – una buca in cui inciampare più che un ponte verso il mondo.

Non si tratta di rincorrere la realtà ma di non perdere terreno, giocando il gioco della mediazione e dell’equilibrio, per non subire i cambiamenti ma, al contrario, per integrarli e non rischiare di smarrirsi.

L'avanzamento del progresso tecnologico è inarrestabile e indipendente dalla scuola. Le intelligenze artificiali sono già disponibili a chiunque e possono sostituire l’umano; come dimostra il caso di chatGPT, in grado di scrivere libri, recensioni, articoli, temi… La soluzione, allora, è rimettere in campo gli strumenti umani, dimostrare, con la pratica, che esiste una variabile personale, emotiva, psicologica insostituibile nella formazione e nella crescita.

Nelle classi dove non funzionano gli strumenti, dove la connessione è lenta o assente, dove non ci sono abbastanza prese elettriche, non poter utilizzare gli ambienti digitali, i motori di ricerca, gli e-book, i fogli condivisi, è un limite. Facendo finalmente entrare la tecnologia in classe, e fornendone i dispositivi necessari, in tutta Italia, da Nord a Sud, e non solo nelle scuole modello, normalizzandola, spiegandola, adattandola al contesto, piegandola a strumento educativo e didattico potremmo liberarla dal brivido del mistero, dei divieti, delle trappole e farla emergere come una risorsa centrale della dinamica scolastica.

Certamente, l’uso dello smartphone o del tablet, può comunque distrarre, come chiunque per esperienza può testimoniare, e interferire con l’apprendimento. A questo si può porre rimedio, a mio avviso, con la comunicazione di politiche chiare sull’uso responsabile dei dispositivi da parte del Ministero e di ogni istituto, con la formazione, e soprattutto con la diminuzione del numero degli studenti per classe, perché solo in questo modo l’insegnante può essere in grado di gestire la classe aumentata che avrebbe di fronte ed educarla, non solo nello stare con gli altri fisicamente ma anche digitalmente, in un’educazione sentimentale integrale per lo stare nel mondo.

E se poi mentre sto in classe mi fanno i video? E se poi usano Tik Tok mentre sono girato di spalle? I pericoli sono reali e concreti, può accadere, è già successo e accadrà ma è necessario accogliere il rischio e assumersi la responsabilità di proporre un'educazione critica che stia nel presente e discuta le mutazioni antropologiche in atto. Un’educazione che non considera i figli e le figlie come «nostri», «schiavi», «decerebrati» ma persone che possono sprigionare la loro enorme potenza e libertà nel mondo, dove sono e possono stare. Infine, un’educazione che possa fornire una risposta e, perché no, altre domande, a quella domanda che mi è stata posta dieci giorni fa e a cui, ancora, non ho risposto.

Simone Biundo

Simone Biundo (Genova, 1990) è insegnante di lettere a Genova in una Scuola secondaria, è editor della rivista «VP Plus». Per Interno Poesia è uscito il suo primo libro di poesie, "Le anime elementari" (2020). Con Damiano Sinfonico e Sara Sorrentino cura la rassegna nazionale di poesia contemporanea , poet. - a Genova.

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