TRE RINASCITE. PUÒ SUCCEDERE ANCORA?

Non mi risulta ci siano immagini coerenti con questa visione per descrivere invece le rinascite, i momenti nei quali l’umanità (o una parte di essa) torna a riemergere da una situazione pesantemente critica che pareva averla sommersa. Dalle crisi si è alla fine sempre usciti (e sempre si uscirà) – questa sarebbe l’idea, salvo il caso di una catastrofe immane e irreversibile, ultimativa: la vera e unica possibile “fine della storia” umana - perché il grande fiume procede comunque, e ne porta fuori, inevitabilmente altrove.
Ma a osservarlo con attenzione, quell’immane scorrere della corrente, appaiono minime increspature d’onda, momenti di scatto in avanti di mente e animo che guidano alla rigenerazione di un qualche valore che pareva perduto: a una rinascita. Vorrei proporre tre di questi momenti, che non potrebbero essere più diversi fra loro, a suggerire altrettanti possibili punti di forza su cui fare leva per darsi la spinta verso l’alto, e tornare a respirare a pieni polmoni in superficie quando sembra di aver toccato il fondo: le radici affondate nelle tradizioni, la fiducia verso ciò in cui si crede, la capacità di autocorreggersi.
MAGGIO 1946: LA SCALA RIAPRE
L’11 maggio 1946 i giornali di Milano pubblicano una lista di undici brani musicali: il programma di una serata di musica lirica.
La notizia si sta diffondendo da giorni per la città come una morbida e piacevole scossa elettrica: la Scala riapre.
Dopo cinque lugubri anni di guerra, fame, sofferenze, angoscia, morte; in un paese soffocato da un ventennio di dittatura, occupato/liberato da eserciti stranieri e devastato da bombardamenti che nell’agosto del ’43 hanno semi-distrutto anche lui, il teatro lirico forse più famoso del mondo.
I milanesi, però, neppure hanno aspettato la fine del conflitto e si sono subito rimboccati le maniche per ricostruirla, la loro Scala.
E ora…
Il Maestro Arturo Toscanini tornerà dal volontario esilio americano per dirigere. La “voce d’angelo” Renata Tebaldi canterà. Amplificatori saranno dislocati nei dintorni per regalare l’ascolto anche a chi non può permettersi di sborsare non dico le 1000 lire di una poltrona ma neppure le 150 dell’accesso alla seconda Galleria. E io, come sia successo, non so dirlo con certezza: che tutti lo fossero venuti a sapere. Se siano stati i giornali (che ancora molti erano incapaci di leggere) o la radio (che non tutti possedevano) o il passaparola (che tutti invece alimentavano).
Fatto sta che quella sera dell’11 maggio 1946 la gente confluì tacitamente concorde verso il centro, una specie di flashmob ante-litteram iniziato che ancora c’era luce, in grande anticipo: uomini, donne, anziani, bambini.
La gente. Non l’uso generico e riduttivo che si fa oggi di questa parola: la ggente… la TUA GENTE. Perché gente, gens, ce lo siamo dimenticati, vuol dire questo. Le persone che sanno di avere una origine comune. E quelli che erano lì quella sera, devono averlo sentito, che erano una gens, una gente.
Perché il programma era tutto italiano, d’accordo: Rossini, Verdi, Puccini, Boito. Ma soprattutto perché quella sera si stava rispondendo alla guerra, alla sofferenza, alla morte, alle bombe che avevano distrutto la loro Scala: e ora…Sapete cosa? Voi ce l’avete buttata giù. E noi l’abbiamo ricostruita.
Così, rimasero lì quasi 3 ore, in piedi, o seduti sui bordi dei marciapiedi, a ascoltare. Fino a che il coro intonò il finale del “Salve Regina” del Mefistofele di Arrigo Boito in un tripudio di violini, tamburi, trombe, piatti. E io sono sicuro che un brivido deve essere andato su per tutte quelle schiene. Quell’invocazione alla Madonna, quel crescendo – dirà una testimone - quell’Ave, ave, ave era divenuto per tutti noi un inno nazionale.
GLI ANNI DI PIOMBO E L'ITALIA DI BEARZOT
Il 18 maggio 1982 i giornali pubblicano una lista di quindici nomi. Il 21 se ne aggiungono altri sei. Un ultimo e definitivo il 25. E fanno ventidue. I ventidue azzurri chiamati a giocare il campionato mondiale di calcio che inizierà in Spagna il 13 giugno.
Le polemiche, nell’aria da tempo, esplodono infuocate. E sarà solo l’inizio.
Il Ct italiano Enzo Bearzot, in particolare, è accusato da più parti, neppur troppo velatamente, di limitatezza – se non addirittura di incapacità – mentale. In ogni caso d’incompetenza. Più di ogni altra cosa gli si rimprovera di aver ignorato il capocannoniere romanista del campionato, Roberto Pruzzo, preferendogli lo juventino Paolo Rossi, squalificato per due anni in seguito allo scandalo del calcio scommesse, rientrato solo nelle ultime tre giornate del torneo, agli occhi di tutti completamente fuori condizione e probabilmente ormai un giocatore finito.
Gli attacchi a Bearzot si acuiscono ancor di più dopo quel 25 maggio in cui scioglie l’ultima riserva: Roberto Bettega, protagonista d’eccellenza del mondiale del ‘78 giocato in Argentina sempre sotto la guida di Bearzot, è reduce da un pesante infortunio. Il Ct lo ha aspettato fino all’ultimo e solo a quel punto deve arrendersi all’evidenza: la partecipazione al Mundial dell’attaccante della Juventus è impossibile. Al suo posto non chiama però Pruzzo ma Franco Selvaggi, attaccante del Cagliari che quell’anno ha ben figurato ma non è propriamente un fuoriclasse.
Bearzot si prende del mentecatto. Ma come può non aver capito prima che Bettega era evidentemente out? Come può non vedere la differenza fra un campione conclamato e una mezza figura?
Incalzato dalle domande, risponde con una sorpresa che viene interpretata come inconsistente svagatezza: “non potevo fare diversamente; attendere Bettega fino all’ultimo è stata una imprescindibile forma di rispetto per il calciatore e per l’uomo…”.
Bearzot – e per molti versi tutta la sua squadra – sarà sottoposto per settimane ad un’incattivita pressione mediatica che arriverà ai limiti della persecuzione e farà di Paolo Rossi il proprio accanito punto di leva. Le prestazioni sbiadite del magro centravanti nelle partite preparatorie e nei primi tre incontri (giocati dagli azzurri in modo non particolarmente brillante, va riconosciuto) gettano benzina sul fuoco. Capita che il tono delle insinuazioni su Pablito (non solo corrotto e finito, ma addirittura troppo intimo frequentatore del compagno di stanza Antonio Cabrini) si alzi ben oltre il livello del buon gusto.
Ma Bearzot lo difende sempre e lo schiera ripetutamente, aspettandolo. Anche in questo caso. Per un semplice motivo. Perché si fida di lui: del giocatore ma soprattutto dell’uomo.
Il 5 luglio, in una partita decisiva e data assolutamente per persa contro l’eccelso Brasile di quell’anno, Rossi segna tre goal e contro tutte le aspettative l’Italia va in semifinale, dove sconfiggerà la Polonia 2-0, con due goal… indovinate di chi? Di Paolo Rossi. E in finale, contro le Germania, chi apre la strada al trionfo azzurro (3-1) segnando la prima, fondamentale, rete? Paolo Rossi, il giocatore finito, quello che non stava più in piedi, quello che si era venduto, quel debosciato viziato e pervertito.
Campione del mondo, capocannoniere del torneo, di lì a poco Pallone d’oro. Rimasto nel cuore di tutti gli italiani da lì in poi, per generazioni, come uomo per bene, di valori semplici e veri, capace di risorgere dall’inferno.
La vittoria in quel mondiale, lo raccontano ormai un po’ tutti gli storici, assurgerà a simbolo della ripartenza dell’Italia intera, data invece per finita e sfinita proprio come il suo campione, dopo i cupi anni di piombo. Terrorismo, crisi economica, violenza politica, inflazione, fanatismo ideologico, corruzione: tutto messo alle spalle. Sulle ali dei goal di Pablito prenderà il via un nuovo boom, tanto effimero e inconsistente quanto desiderato e ubriacante.
Comunque una rinascita.
Bisognerebbe erigere monumenti ovunque a Enzo Bearzot, uomo tutto d’un pezzo, legato a valori profondi, e intitolargli vie, e rammentarne anniversari, non perché ha vinto un mondiale (cosa fin ovvia per la mentalità italica) e nemmeno perché perché ha acceso con il successo dei suoi atleti la cialtrona ripartenza degli anni ‘di plastica’, ma perché ha avuto fiducia in un uomo che sembrava finito.
Aiutare un uomo a rinascere, anche uno solo, precipitato nell’inferno degli affanni e della vita, dandogli fiducia.
C’è qualcosa di fin evangelico, in questo.
LO SCANDALO DEL METANOLO E LA SCELTA DELLA QUALITÀ
Ai primi di aprile del 1986 i giornali pubblicano l’elenco di una sessantina di aziende vinicole convolte nello scandalo scoppiato il 18 marzo precedente: la “strage del metanolo”. Un sinistro caso di sofisticazione alimentare: per aumentarne il tasso alcolico, si è aggiunto al vino un carburante a bassissimo prezzo (perché stoltamente da poco detassato), usato anche come solvente. Il metanolo, appunto. Muoiono 19 persone. Altre restano menomate nella vista. E già questo è tragedia.
Ma anche le conseguenze a livello produttivo sono drammatiche. Le esportazioni crollano di oltre un terzo e il fatturato di un quarto. L’invenduto di vino è enorme. All’estero la fornitura italiana viene bloccata: non ci si fida dei controlli fatti dai nostri laboratori e si rifiutano anche altri prodotti agroalimentari.
La solita immagine dell’Italia disonesta, inaffidabile e truffaldina prevale.
Potrebbe essere la fine.
E invece.
Il Governo rafforza le azioni di prevenzione e repressione delle sofisticazioni. Si istituisce l’Anagrafe vitivinicola regionale e l’Ispettorato Centrale Repressione Frodi. S’impongono controlli e rispetto delle regole. I produttori rispondono con consapevolezza: cresce la competenza e la cultura. Si opta per la qualità.
Oggi in Italia si produce molto meno ma il vino vale molto di più: fatturato ed export si sono triplicati. Il numero di vini certificati è raddoppiato. E il loro peso nella produzione complessiva è più che quintuplicato.
Siamo al top.
Non è vero che siamo sempre e solo disonesti e inaffidabili.
Abbiamo imparato dai nostri errori.
Eravamo finiti e siamo rinati.
Possibile non possa più succedere?
Paolo Colombo
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