Un commento sulla situazione in Afghanistan

Un commento sulla situazione in Afghanistan

11.09.2021
di Wael Farouq

Di fronte ai recenti avvenimenti in Afghanistan, molti si chiedono se i talebani siano davvero cambiati dal 2001 e se sia possibile oggi qualche tipo di dialogo con loro. I tentativi di fuga disperata di migliaia di afgani sembrano indicare, senza ombra di dubbio, che loro non hanno molte speranze che sia davvero così. Del resto, se da un lato i talebani hanno dato rassicurazioni in occasione dell’accordo di Doha del 29 febbraio 2020, sia sul ritiro del loro appoggio ad al-Qaeda e altre organizzazioni terroristiche, sia sul loro rispetto dei diritti civili dei cittadini afgani, in particolare delle donne, dall’altro lato già ci giungono numerose testimonianze di violenze, repressioni brutali e intimidazioni nei confronti di chi non si attiene alle rigide norme di comportamento imposte dai talebani.

Queste testimonianze, purtroppo, non stupiscono. In un’intervista alla Reuters, il 18 agosto scorso, l’alto funzionario talebano Waheedullah Hashimi, ha detto chiaramente che «non ci sarà affatto un sistema democratico [in Afghanistan], perché non ha alcuna base nel nostro Paese. Non discuteremo quale tipo di sistema politico dovremo applicare in Afghanistan perché è chiaro. È la legge della Sharia e basta». Nel 2016, la promessa più grande fatta da Mawlawi Hibatullah Akhundzada, nuovo leader dei talebani e successore del Mullah Omar, durante il suo discorso di accettazione della carica di amir al-mu’minin (comandante dei credenti), è stata riportare l’islam alla sua “purezza”. Cosa significano esattamente queste parole?

L’idea di dover “purificare” l’islam è persistente nell’ideologia talebana. Nel 1994 hanno combattuto i mujahidin proprio perché per loro non erano abbastanza “puri” e la prima cosa che hanno fatto, durante il loro primo governo in Afghanistan, è stato istituire la cosiddetta “polizia morale” che vigila sui comportamenti delle persone.

Dunque, l’ideologia religiosa dei talebani è incentrata sull’idea di purezza e quando si pone la purezza al centro dei propri valori, la cosa di cui si ha più bisogno sono le regole, nel caso in questione la sharia. Se non si seguono le regole non si è puri, bensì “sporchi”. Tutta la cultura ruoterà intorno all’idea di purezza e saranno le regole a proteggerla. Sarà necessario purificarsi, purificare gli altri e purificare l’intera società. In tal modo, la religione diventa uno schema, una forma chiusa e astratta incapace di generare un significato per il presente. L’assenza di questo rapporto con il reale e il presente porta, nel suo estremo limite, alla giustificazione della violenza per purificare la società.

Per l’islam, in realtà, la sharia è una strada, una via da percorrere. Nella lingua araba, la parola sharia indica la stradina nel deserto che porta all’acqua ed è tracciata dai piedi dei camminatori. Nel Corano, la sharia è una metafora della religione come strada divina verso la vita eterna, tracciata da persone dotate di libero arbitrio. Non è una legge divina da applicare alla lettera, dunque, ma spazio d’incontro fra volontà divina e agire umano. In tal senso, la sharia è al tempo stesso divina e terrena. I versetti sulle relazioni sociali e sulle transazioni commerciali (mu‘āmalat), ai quali è stata ridotta la sharia nella comprensione ristretta del jihadismo, di cui i talebani sono una delle emanazioni più estremiste, sono solo 80 dei 6.000 contenuti nel testo coranico. Quelli contenenti pronunciamenti giuridico-dottrinali (aḥkām) non fanno mai uso della parola sharia.

Il giurista Ibn al-Qayyim (1292-1350) ha detto che «ovunque c’è il bene, c’è la sharia». È lo stesso concetto, formulato con parole diverse, espresso anche da Gesù, quando ha detto: «Il sabato [cioè la legge] è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato!» (Mc 2,27). 

I talebani, invece, interpretano la sharia come una regola, una legge rigidamente codificata e fissa che, in tal modo, si trasforma in una forma chiusa. Per i talebani, solo il rispetto integrale della sharia, intesa come regola da osservare con ferrea disciplina, può garantire la purezza della persona e della società. Ecco perché tutte le promesse fatte dai talebani non possono essere mantenute: perché esse rappresentano l’impurità contro la quale è diretta la loro missione. I talebani sono nati per combattere l’impurità, rinunciare a questa missione significa rinunciare alla loro stessa identità.

Un altro fatto importante da considerare è che il movimento dei talebani non ha un'organizzazione ben definita, né una struttura amministrativa chiara. Non hanno nessun regolamento che regoli i loro affari interni, né un programma per educare i loro affiliati e nemmeno tessere per attestare la loro appartenenza al movimento. Sono semplicemente individui che hanno accolto l’invito al jihad. Il collante che li tiene uniti è rappresentato dai comuni principi in cui credono, non da una struttura organizzata. Perciò, anche se i leader che hanno fatto promesse di maggior aperture lo desiderassero davvero, non sarebbero in grado di imporre le proprie idee ai loro seguaci.

LA DEMOCRAZIA E I TALEBANI

I talebani rifiutano totalmente la democrazia, anzi pensano che essa sia la vera antitesi dell’islam. L’opinione che i talebani hanno della democrazia si può meglio comprendere leggendo le idee raccolte nei libri che essi considerano come i loro riferimenti autorevoli,[1] comuni alle diverse espressioni del jihadismo, e che cercherò qui di riassumere.

I punti di contrasto insanabili fra islam e democrazia, secondo i jihadisti, sono molti. Essi ritengono che i sistemi democratici siano una forma moderna di shirk (idolatria) e che, come tali, ignorino l'autorità del Creatore e il Suo diritto assoluto ed esclusivo a legiferare, assegnandolo invece al Parlamento. In democrazia, la sovranità appartiene al popolo, ma ciò è inaccettabile per loro, perché tutti i musulmani, volenti o nolenti, devono essere sottomessi esclusivamente a Dio.

La forma di governo, in una democrazia, può essere repubblicana o monarchica ed è consentito passare da una forma all’altra. Per il jihadismo, invece, è ammessa un’unica forma di governo che differisce da tutti gli altri sistemi di governo al mondo, ed è il califfato: una leadership globale che riunisce sotto di sé tutti i musulmani del mondo.

Il califfato non riconosce né confini fisici né l'indipendenza di un paese islamico da un altro, ma tutti devono essere riuniti in un unico grande paese. Anche se vige una ripartizione in divisioni amministrative (wilāyāt), la nazione è una sola, l'esercito è uno solo, la bandiera è una sola e il tesoro dello Stato è uno solo. Al contrario, con il sistema democratico gli staterelli indipendenti si moltiplicano, perché i regimi democratici rispettano, sostengono e tutelano le nazionalità e le etnie diverse, ma questo è inaccettabile per il jihadismo che vuole un califfato in cui dissolvere tutte le nazionalità, le tribù e le razze, fuse indistintamente insieme nell'islam.

Di conseguenza, se in un sistema democratico la politica estera si basa sul rispetto dei confini internazionali e delle acque territoriali degli altri stati, sotto il califfato i confini fra musulmani non sono riconosciuti e la politica estera si concretizza sostanzialmente nel jihad per diffondere l'islam.

La democrazia si basa su un sistema multipartitico, ma secondo il jihadismo il multipartitismo è in radicale disaccordo con l'islam, perché è costruito su una pluralità di ideologie che non possono coesistere nella società. In uno stato islamico, il governo è nelle mani dei musulmani, che hanno un'unica dottrina, un'unica religione e un unico programma. Non ci sono quindi lotte ideologiche tra loro, contrariamente a quanto avviene nelle società democratiche, ed esistono solo due partiti: “il partito di Dio” e “il partito di Satana”, che naturalmente va censurato.

La democrazia sarebbe inoltre in conflitto con l'islam, perché concede al popolo il diritto assoluto di nominare e rimuovere dal governo chi vuole, disattendendo le regole stabilite dalla sharia per la nomina del governante. In una democrazia è lecito ribellarsi al governante, manifestare e rifiutarsi di obbedirgli. Nell'islam, invece, la ribellione e la disobbedienza non sarebbero ammesse, secondo il jihadismo, eccetto che in un caso: quando il governante ordina un peccato.

La democrazia stabilisce l'uguaglianza fra tutti i cittadini, ma per il jihadismo attraverso il concetto di “cittadinanza” si mettono sullo stesso piano musulmani e miscredenti, il che non è ammissibile.

La democrazia concede la libertà a tutti i cittadini senza restrizioni. Chi vuole abbracciare qualsiasi credenza può farlo, chi vuole abbandonare l'islam può farlo senza essere punito, ma tutto ciò, per i jihadisti, significherebbe porre sullo stesso piano il vero e il falso, il giusto e l’immorale, il fedele e il miscredente, in totale disaccordo con quelli che sarebbero secondo loro gli insegnamenti dell’islam.

La democrazia sancisce le libertà ma, secondo il jihadismo, la libertà nel concetto occidentale non è la liberazione dell'uomo dalla schiavitù come nell’islam, perché gli schiavi non esistono più, e nemmeno la liberazione dal colonialismo. Le libertà “occidentali” sarebbero quattro: libertà di abbracciare la religione che si vuole, libertà di opinione, libertà di possedere proprietà (che avrebbe prodotto l’economia capitalista e dato il via alla colonizzazione dei popoli e al depredamento dei loro beni) e libertà personale (che nel sistema democratico sarebbe la libertà di liberarsi da tutte le restrizioni e deviare da tutti i valori spirituali, morali e umani). Secondo i jihadisti, l’islam ripudierebbe questi falsi concetti di libertà, poiché afferma che le persone sono libere solo nella misura in cui non contraddicono la religione di Dio e non superano i limiti da Lui imposti, sia per quanto riguarda i beni da loro posseduti, sia per quanto riguarda le loro azioni. E dunque, non è lecito lasciare che le persone indossino, mangino e imparino ciò che desiderano, perché cose e azioni si dividono in lecite, illecite e obbligatorie. Al contrario, l’unico criterio valido per misurare le azioni umane, nella vita democratica figlia della civiltà occidentale, sarebbe il criterio dell’utilitarismo.

Sempre secondo il jihadismo, per la civiltà occidentale democratica la felicità equivarrebbe a ottenere la maggior quantità possibile di piaceri in questa vita mondana, mentre per l'islam e la civiltà islamica consisterebbe esclusivamente nel conquistarsi il favore di Dio.

Come si può constatare, l’ideologia cui aderiscono i talebani è profondamente in contrasto con le promesse che hanno fatto i loro leader. Se le mantenessero, verrebbe meno la loro ragion d’essere.

Ciò che rattrista è che la maggior parte dei combattenti talebani di oggi sono nati sotto l’occupazione americana, o avevano meno di dieci anni quando è iniziata. Eppure, la loro ideologia è rimasta la stessa dei talebani prima dell’occupazione. Gli americani e i loro alleati, in vent’anni, non sono mai usciti dalle loro basi per interagire con la società afgana. Hanno scelto di costruire un esercito, non di costruire scuole e questo è il risultato. Hanno creato un vuoto che per i talebani è stato facile riempire di nuovo. Nel vuoto cresce il male e ora la popolazione afgana ne sta pagando dolorosamente le conseguenze.

La battaglia contro l’ideologia dei talebani non può essere fatta militarmente, ci vogliono educazione e cultura. I popoli musulmani possiedono lo stesso slancio naturale verso la libertà che hanno tutti gli altri popoli e guardano all’Europa come a un modello da imitare. I giovani delle primavere arabe, per esempio, sono scesi in piazza nel 2011 per chiedere libertà, non l’applicazione della sharia. Purtroppo, però, l’Europa e l’Occidente spesso non si comportano conformemente al modello ideale che essi incarnano. Finché i movimenti islamisti riceveranno il sostegno forte di questa o quella potenza mondiale, i popoli musulmani non potranno proseguire il loro cammino storico in direzione di una maggiore libertà e democrazia.

E noi, cosa possiamo fare per gli afgani adesso? Io penso che l’aiuto che possiamo dare consiste nel non stancarci mai di fare progetti e proposte culturali per riempire il vuoto che si è creato in Afghanistan. Non dobbiamo cessare di mettere i talebani davanti allo specchio del male che fanno. La nostra voce può proteggere tanta gente dalle loro violenze.

[1] Si veda, a titolo di esempio, J.Ḥ.ʿA. Jād al-Ḥaqq, Naqḍ al-farīḍa al-ġāʾiba, Kitāb al-Azhar, al-Qāhira 1993, 7-31; “Concept of democracy in Islam”, fatwā no. 98134, https://islamqa.info/en/98134; dichiarazione del Comitato culturale di Ḥizb al-Taḥrīr, Al-Qā‘ida, Wilāyat al-‘Irāq, 2005.

 

Wael Farouq

È Professore di Lingua, letteratura e cultura araba all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. In precedenza è stato Professore di Lingua araba all’American University del Cairo. È inoltre Straus Fellow all’Institute for the Advanced Study of Law and Justice dell’Università di New York e vice-presidente del Meeting Cairo. I suoi interessi di ricerca vertono principalmente sulla lingua e la letteratura araba, sull’islamistica,

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