UN NUOVO SAPERE. LA LEZIONE DEL TRAUMA

UN NUOVO SAPERE. LA LEZIONE DEL TRAUMA

24.10.2020
di Francesco Stoppa

Nel pieno della diffusione del virus, che condanna tutti all’isolamento domestico, una giovane donna sogna di trovarsi al mare. Dopo essersi goduta il tepore del sole e l’aria marina, decide di fare un bagno, ma con suo grande stupore, e allo stesso tempo come se si trattasse di un’abilità dismessa ma che possedeva da sempre, si accorge che sta camminando sull’acqua.

Il desiderio che anima questo sogno non è riconducibile al semplice bisogno di annullare il dato traumatico, e cioè l’incombente presenza del virus che getta un’ombra sui nostri giorni inibendo il libero movimento dei corpi nel mondo esterno. La sognatrice apporta infatti una variazione al copione, cioè alla realtà dei fatti, cercando di riscriverli in modo tale che, oltre a evitare il peggio e a tornare alla normalità, la situazione, come diremo, volga sorprendentemente a suo favore. Tuttavia, al di là della paura del contagio, il peggio in questione, per lei come per noi, ha a che vedere con la constatazione di come l’agente patogeno possa fuoriuscire dall’habitat naturale in cui avrebbe dovuto restare confinato per passare all’uomo. Il cosidetto salto di specie rappresenta infatti l’effrazione della barriera che avrebbe dovuto tenere separate l’esistenza dell’essere parlante da quelle delle altre forme di vita, vegetali o animali, ritenute inferiori (l’altra barriera è quella tra l’uomo e il divino): né più né meno che l’impensabile per qualsiasi individuo e tanto più per una società avanzata ma fortemente immunizzata come la nostra. In altre parole, un oltraggio al narcisismo e alla presunzione di onnipotenza dell’uomo moderno.

Tutto ciò apre una crepa nell’immagine che ha di se stessa una società rapita a tal punto nella propria utopia di autosufficienza da non avvertire alcun bisogno di venire a patti vuoi col mondo della natura vuoi con la dimensione del trascendente. Una simile hỳbris spinge gli uomini a disconoscere il valore di ciò che è altro da sé e che essi intendono tutt’al più assoggettare ai propri fini, con cui si rifiutano di dialogare. Ma, cosa nota dai tempi di Babele, la noncuranza o il disprezzo per l’alterità hanno un effetto di boomerang: per contrappasso, la differenza non riconosciuta si riversa al proprio interno condannando alla reciproca incomunicabilità i membri della comunità.    

Ovviamente il gesto che consente alla nostra sognatrice di scampare il pericolo dell’assalto del non-umano – cioè librarsi sulla superficie del mare come solo un dio può fare – non contiene la protervia dei nostri progenitori biblici, ha anzi in sé tutta la leggerezza della nonchalance femminile e non è privo di un lato umoristico. Come dire: se tocca uscire dalla propria pelle, allora, anziché subire l’aggressione di quella vita parassitaria che minaccia di far regredire la propria a uno stato decisamente indesiderabile, meglio alzare la posta e spiccare un salto in avanti, varcare la soglia nella direzione opposta a quella temuta ed elevare, non di poco, il proprio status personale.

Resta il fatto che, al di là dei mille tentativi di negare il problema, il nostro mondo si sente incalzato da un incubo che, a discapito delle certezze offerte dal discorso scientifico, lo turba da tempo e nel profondo: il terrore che le lancette della storia possano essere bruscamente riportate al momento dell’indistinzione tra l’uomo e le altre forme viventi, un’angoscia che risveglia la consapevolezza, solitamente rimossa, della caducità dell’essere umano e delle sue opere. Più nello specifico, ciò che non cessa di procurare un certo turbamento è il doversi di tanto in tanto confrontare con quel punto di scopertura dei sistemi simbolici – scienza, tecnica, economia, informazione – che impedisce loro di padroneggiare e manovrare senza falle il reale, la vita.

Il vero problema è che la nostra è una società che continua a mostrare evidenti difficoltà nell’elaborazione dei propri traumi, e ad essa fa eco un individuo altrettanto poco allenato a farlo. Triste consolazione: il quotidiano proliferare di messaggi pubblicitari con cui il mercato non perde occasione per farci sapere che una volta finita l’epidemia saremo – non si sa bene come e perché! - gli abitanti di un mondo migliore (gli stessi messaggi che, a fronte dello spettro della malattia e della morte, si premurano di assicurare il consumatore sull’inalterabilità e l’imperitura reperibilità dei suoi prodotti preferiti). Questa retorica in stile new age appartiene al nostro tempo, il tempo degli automatismi, dove tutto deve succedere senza che nessuno si faccia del male e dove le ferite vanno ricucite in quattro e quattr’otto e poi… via come prima!

Perché, piuttosto che subire queste idiozie, non riflettere su come il presente possa preludere a un più consapevole futuro ricorrendo, come suggerisce Massimo Cacciari nel suo recente saggio sull’Umanesimo, alla saggezza del passato? Si può forse elaborare un trauma senza aprire in noi uno stato di crisi? Krisis non equivaleva, per gli antichi, alla semplice constatazione dell’evento in questione e dei suoi effetti, segnalava piuttosto il generarsi di una precisa e profonda reazione interiore in chi ne è stato colpito. Questo termine, ad esempio, era usato per descrivere un momento particolarmente delicato nel rapporto che intratteniamo col nostro corpo, e cioè la fase della malattia nella quale si è chiamati a decidere cosa ne sarà di noi una volta superato l’ostacolo, una volta che il veleno (in latino virus) avrà abbandonato il campo.

Il verbo di riferimento, krino - che significa ‘discerno’ e ‘separo’ - allude a un atto scandito in due tempi logici, il primo concernente un’attività di pensiero e l’altro, più operativo, che vede il soggetto prendere di mira se stesso: è lui che deve saper scavare un solco al proprio interno, trovare il coraggio di guardarci dentro e in certo qual modo reinventarsi. Non potrà rimanere esattamente ciò che era, c’è qualcosa che dovrà tenere e qualcosa che dovrà lasciarsi alle spalle; sarà in qualche modo diviso da se stesso, non tanto a causa del trauma quanto per decisione propria. Decidere significa operare un taglio, e ciascuno dovrà scegliere cosa staccare da sé. Saremo disposti, tanto per dirne una, a mettere in discussione i nostri ideali di vita e i nostri modelli di sviluppo? Come sempre c’è da perdere qualcosa per ritrovare qualcosa di più sostanziale di sé.

Si tratta di un processo tutt’altro che istantaneo. Necessita di una particolare gestazione, un’operazione ben diversa da una reazione istintiva o meccanica dettata dall’angoscia di coprire, comunque sia, la falla. Bisogna, anzi, vincere la tentazione di ricorrere alla consueta batteria di risposte, di tecniche e conoscenze già a nostra disposizione, perché c’è un nuovo sapere che quel taglio fa venire alla luce sollecitandoci a una rivisitazione e rinegoziazione del nostro legame col mondo. Un mondo di cui dovremmo reimparare a considerarci i custodi e non i padroni.

Francesco Stoppa

Francesco Stoppa, analista, lavora presso il Dipartimento di salute mentale di Pordenone, città dove coordina il progetto di comunità «Genius loci». Membro della Scuola di psicoanalisi dei Forum del Campo lacaniano, è docente dell’Istituto ICLeS per la formazione degli psicoterapeuti e redattore della rivista «L’Ippogrifo».

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