UOMINI E DONNE AL COMANDO. Diversi ma ugualmente importanti

La capacità di coinvolgere uomini e donne nelle strutture di governo realizza quel principio di diversità che assicura generalmente scelte migliori. Ma gli effetti benefici della legge Golfo-Mosca, scrive Antonella Sciarrone Alibrandi, possono essere consolidati solo grazie a un cambiamento culturale.
di Antonella Sciarrone Alibrandi
Nell’ambito degli studi in materia di corporate governance può dirsi ormai acquisito l’apprezzamento per la cosiddetta diversity all’interno dei board di banche e società quotate in contrapposizione alla tradizionale autoreferenzialità culturale di alcuni “microcosmi” decisionali. Nell’ottica di favorire decisioni consapevoli e indipendenti (in una parola, per decidere bene), è necessario cioè garantire una composizione degli organi di gestione sufficientemente diversificata per quanto riguarda età, sesso, provenienza geografica, percorso formativo e professionale dei componenti l’organo. Pur se consolidato a livello teorico, il principio della diversity non trova ancora però una piena realizzazione sul campo. E ciò nonostante, anche nella mia personale esperienza, in qualsiasi organo di gestione (che si tratti del board di una banca così come del consiglio di amministrazione di una università) decisioni che siano effettiva espressione della collegialità, raggiunta attraverso un confronto dialettico fra diversi punti di vista, si fanno particolarmente apprezzare in quanto in grado di perseguire in modo più efficace l’interesse sociale, cioè di tutti gli stakeholder.
Nel contesto dell’odierno dibattito sulla diversity, un profilo senz’altro importante continua ad essere quello relativo allo spazio, in passato davvero esiguo, riservato al genere femminile nelle “stanze dei bottoni”. Per inquadrare il discorso nella giusta prospettiva, non sembra inutile premettere che, come evidenziato da pregevoli studi di psicologia sociale e di management, la leadership maschile e quella femminile differiscono sotto molteplici punti di vista. E il valore aggiunto che ciascuna di esse esprime si apprezza al meglio nell’ambito di una relazione dialettica in grado di intercettare le differenti sensibilità, consentendo un prezioso ampliamento di orizzonte rispetto al modo di gestire e valutare ogni tipo di questione di volta in volta oggetto di analisi. Al di là di quello che si era abituati a pensare non ci sono cioè materie per natura più adatte di altre ad essere gestite da donne; né, per converso, le donne entrate negli organi decisionali devono in alcun modo tendere a ricalcare il modello maschile, pena il rischio di ritornare agli stereotipi culturali, senza riuscire a valorizzare davvero la diversità apportata da ciascuno.
Ancora con riguardo al ruolo delle donne nei board, va ricordato che, in Italia, uno snodo importante è stato rappresentato dalla legge Golfo-Mosca che, nel 2011, ha introdotto l’obbligo di riservare almeno un terzo dei componenti degli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in borsa e delle controllate pubbliche al genere meno rappresentato: e quindi, allo stato attuale, alle donne. L’appena menzionata legge ha senz’altro contribuito a scardinare una consolidata prassi condizionante i meccanismi di scelta, vale a dire l’apprezzamento delle capacità delle persone in subordine al loro genere; prassi che in passato determinava una marginalizzazione di fatto rispetto ad alcuni settori di buona parte dei talenti disponibili, vale a dire quelli femminili. Il benefico effetto dell’introduzione della legge Golfo-Mosca è sotto gli occhi di tutti: in pochi anni si è passati, infatti, dal 2% di rappresentanza femminile (nel 2003) al 33,5% (nel 2018). In quanto volta a bucare il “soffitto di cristallo”, la legge è stata giustamente concepita alla stregua di una misura temporanea ed è entrata nell’ultimo triennio di operatività. Si aprono ora due strade: la prima consiste nel reiterare l’intervento normativo, al fine di tutelare la delicata transizione in corso a fronte di un’autoreferenzialità culturale che permane. Secondo taluni i risultati sin qui conseguiti spingerebbero in questa direzione anche in ragione del fatto che l’obbligo imposto per legge ad alcune società di raggiungere il tetto previsto (che in qualche caso è stato addirittura superato) non ha prodotto l’auspicato effetto trainante.
Al di là però del fatto che, a mio parere, la misura introdotta dalla legge non può che avere natura temporanea (e quindi, tutt’al più, prolungabile per un ulteriore ma definito arco di tempo), allo stato attuale mi sembra stimolante percorrere, in via alternativa o concorrente, la via della soft-law. In questo senso, è interessante notare che, nel luglio 2018, il Codice di Autodisciplinadelle società quotateha indicato alcune best practices proprio allo scopo di mantenere i risultati raggiunti dalla legge e svilupparli ulteriormente. Essenziale risulta poi monitorare l’efficacia di tali misure e a tal proposito assai opportuna è la recente istituzione dell’Osservatorio sulla presenza femminile al vertice delle società istituito dal Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri per le Pari Opportunità in collaborazione con la Consob e la Banca d’Italia.
Il pieno raggiungimento dell’obiettivo della diversity, e in particolare della valorizzazione del genere femminile, richiede però, prima di tutto, un profondo cambiamento culturale che solo in minima parte può essere indotto da interventi normativi. Se tra gli effetti indiretti della legge Golfo-Mosca non sono, infatti, da sottovalutare i role model nell’incentivazione concreta di empowerment, nell’ottica di un mutamento di approccio culturale è l’università a giocare un ruolo fondamentale. Frequentata oggi da un numero di studentesse addirittura maggiore rispetto al numero di studenti (e spesso con medie di rendimento assai elevate), è importante che l’università sappia essere una comunità educante che incentivi le ragazze a valorizzare i loro talenti oltre gli stereotipi. La maggiore possibilità che le studentesse di oggi hanno di vedere posizioni di rilievo, all’interno dei board delle società così come in università, occupate da donne si può tradurre nella spinta a non essere rinunciatarie, dopo anni di studio, rispetto a orizzonti professionali in determinati settori. E ancora una volta l’università può essere un cantiere di progettazione di misure, da adottare nel mondo del lavoro, volte a incentivare flessibilità e conciliazione tra famiglia e impiego: misure essenziali per non perdere nemmeno una goccia di quei talenti preziosi che il genere femminile possiede e che deve avere l’opportunità di mettere a frutto.
Antonella Sciarrone Alibrandi
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