Anche il quarto fascicolo del 2014 del bimestrale dell’Università Cattolica ospita nella rubrica “Reprint” gli interventi di due protagonisti autorevoli della storia italiana. Un testo dello scrittore e poeta Giovanni Papini, intitolato Manzoni “ribelle” in nome della giustizia, comparso su "Vita e Pensiero", nel fascicolo del maggio 1923. L’altro articolo è di Carlo Maria Martini, pubblicato su "Vita e Pensiero" nel 1982 con il titolo: Nell’ottavo centenario della nascita di san Francesco. Diversi e trasversali i contributi raccolti in questo numero. Come la riflessione di Luc Ferry, che affronta la difficile questione dello sviluppo sostenibile; la testimonianza di Luigi Montagnini che, in Siria, giugno 2014. Caro Mohammad, constata il collasso di un Paese e la crudezza delle sofferenze della popolazione siriana; l’intervento del docente di politica economica Luigi Campiglio sulla ripresa e la rinascita del paese; il focus con Claudio Lucifora, Alessandro Rosina e Vincenzo Ferrante sulla disoccupazione giovanile e i limiti nelle politiche su lavoro e sviluppo; l’inedito dello scrittore brianzolo Eugenio Corti, nell’anno della sua scomparsa; il saggio Per una teologia delle emozioni del presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, Gianfranco Ravasi. Nella sezione Polemiche Culturali un interessante saggio di Ettore Capri, professore di Chimica agraria e direttore del Centro di ricerca OPERA, l’Osservatorio Europeo per lo sviluppo sostenibile in agricoltura dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Tanti altri ancora gli interventi presenti, tra cui anche quelli di alcuni showman come Claudio Cecchetto e Giacomo Poretti.
Originariamente comparso su «Vita e Pensiero», nel fascicolo del novembre 1982, riproponiamo qui il testo dell’intervento pronunciato dall’allora arcivescovo di Milano in apertura di una manifestazione promossa dal Comune di Milano il 22 settembre di quell’anno, proprio per ricordare l’importante ricorrenza e celebrare il Santo di Assisi.
La crisi della globalizzazione ci porta a dover riscoprire l’importanza dei valori spirituali, riconosciuti come tali anche dai non credenti. E la questione politica decisiva oggi sembra essere questa: che mondo vogliamo lasciare ai nostri figli?
Cambiare rotta, preparare l’avvenire e affrontare la difficile questione dello sviluppo sostenibile presuppone ai miei occhi due condizioni. La prima è avere valori che non si riducano ai valori morali formali. La società nella quale viviamo – società liberale, sociale, democratica – si risolve nei “diritti dell’uomo” e nel “mercato”. Diritti dell’uomo e mercato: è un binomio certo formidabile, ma totalmente insufficiente. Per cambiare rotta, occorre essere capaci – e qui sta tutta la difficoltà – di delineare un’altra direzione. Non si può cambiare rotta solo in senso negativo. Servono valori al di là della morale, cioè valori spirituali – che questa spiritualità sia religiosa o laica, credente o agnostica, poco importa qui. Dobbiamo essere in grado di definire un progetto che permetta la vita comune, un orizzonte di vita. I diritti dell’uomo mirano alla pacificazione del mondo, ma non danno alcun senso all’esistenza, nelle due accezioni del termine: nessuna direzione e nessun significato.
I conflitti legati alle risorse non danno pace all’umanità da tempi remoti, ma oggi assumono un carattere nuovo. La vera domanda non è più soltanto se vi saranno risorse sufficienti, ma anche tra chi e per quali scopi esse verranno spartite. I conflitti legati alle risorse non danno pace all’umanità da tempi remoti, ma oggi assumono un carattere nuovo. La vera domanda non è più soltanto se vi saranno risorse sufficienti, ma anche tra chi e per quali scopi esse verranno spartite.
Era il 1928 quando Gandhi formulava una di quelle intuizioni che hanno reso il suo pensiero attuale fi no a oggi. Egli scriveva: «Dio non vuole che l’India reclami un’industrializzazione che segue il modello occidentale. L’imperialismo economico di un solo minuscolo regno insulare (l’Inghilterra) oggi tiene in catene il mondo. Se un’intera nazione con trecento milioni di abitanti ambisse a un simile sfruttamento, il mondo sarebbe divorato come dalla piaga delle cavallette». Nel frattempo la predizione di Gandhi ha trovato un’impressionante conferma, per cui la moltiplicazione del modello inglese su scala globale, India inclusa, ha portato con sé una moltiplicazione del saccheggio della natura a tal punto che la biosfera terrestre inizia a non reggere più.
Fra esodi e ritorni, persecuzioni e tentativi di resistenza, la vicenda degli Assiro-Caldei è ancora sconosciuta in Occidente. Ma qualcosa si sta muovendo per un recupero della memoria, una rinascita delle comunità e un’unità fra le Chiese.
Nel centenario della Prima guerra mondiale e del genocidio armeno e assiro-caldeo del 1915, chi conosce l’esistenza degli Assiro- Caldei del Caucaso vittime di quella tragica storia? Chi è a conoscenza del fatto che gli Assiro-Caldei, cristiani della Chiesa d’Oriente detta nestoriana, conosciuti dai russi con il nome di Aissor, parlano ancora oggi l’aramaico, la lingua di Cristo, in regioni caucasiche di grande fascino? Quando si parla di Assiro-Caldei si pensa immediatamente all’Iraq, alla Turchia, all’Iran, alla Siria, al Libano e alla diaspora. La destinazione russa e caucasica (Georgia, Armenia, Azerbaijan, Caucaso del nord), invece, è largamente sconosciuta, e ancor meno lo sono i legami con i russi e la Chiesa ortodossa. Eppure, questa pagina di storia, per molti aspetti dolorosa e largamente rimossa, merita di essere chiarita. Vivendo alla periferia degli imperi turco e persiano, in un ambiente ostile sconvolto dalle guerre e in uno stato di costante insicurezza e indigenza economica, gli Assiro-Caldei cercarono protezione in vista di un futuro migliore.
La testimonianza di chi, in territorio di guerra, ha constatato il collasso di un Paese e la crudezza delle sofferenze della popolazione siriana dopo tre anni di conflitti civili. Mentre le diplomazie arrancano e i media volgono altrove il loro sguardo.
Ho appena ricevuto un’e-mail da Mohammad, il mio “fratellino siriano”, come lui stesso ama definirsi. È un collega di 28 anni, con cui ho lavorato per quattro settimane in un ospedale nel nord della Siria. Aveva davanti a sé una promettente carriera all’università, prima che la guerra lo costringesse ad abbandonare la sua città per rifugiarsi al nord. Non è mai uscito dal Paese, perché privo di passaporto. Solo chi ha assolto il servizio militare, infatti, può ottenere il passaporto, ma fare il militare, in questo periodo, vorrebbe dire essere schierato nell’esercito. Poche settimane fa, durante un bombardamento, è morto suo padre, ma lui non mi ha scritto nulla; l’ho saputo da un amico comune, un collega inglese. Mohammad non mi racconta mai della guerra, vuole che sia io a scrivergli qualcosa di me e del mio Paese, qualsiasi notizia che lo possa distrarre e possa fargli pregustare quella libertà che, prima con il regime e poi con la guerra, non ha mai potuto assaporare.
Distribuire in maniera equilibrata i benefici derivanti dall’aumento di produttività è la premessa indispensabile per la ripresa e la crescita di un Paese. Ma anche un modo per consentire alle famiglie bisognose di uscire dalla trappola dell’indigenza.
Tutte le famiglie ricche si riconoscono fra di loro, mentre ogni famiglia povera fa di tutto per non essere riconosciuta. La povertà si nasconde, per dignità o vergogna, mentre la ricchezza si mostra, discreta o ostentata: povertà e ricchezza convivono sempre più nelle grandi metropoli, in mondi paralleli delimitati dal confine degli schermi televisivi, ma confusi nell’indifferenza di vie e quartieri in cui si incrociano i passi e i rumori, ma non gli sguardi diretti e le parole. L’incessante crescita della disuguaglianza negli Stati Uniti, a partire dagli anni Ottanta, ha reso ancora più stridente un modello di crescita economica nel quale i benefici economici derivanti dagli aumenti di produttività sono stati assorbiti da una ristretta élite economica, l’ormai famoso top 1%. Il problema di fondo, che riguarda anche i Paesi europei, è perciò quello del come distribuire in modo equilibrato il beneficio economico derivante dall’aumento della produttività e della crescita.
Lo caratterizzano la raccolta fondi e internet, ma soprattutto la “folla”, aspetto forse trascurato nel dibattito. Ma è ciò che conta di più nel successo delle campagne. Dalla colletta dei familiari alla diffusione in rete: così si realizzano nuovi progetti.
Marco Rizzuto e Giovanni Grieco sono studenti di architettura alle prese con un problema: per i progetti universitari è necessario presentare modelli e prototipi molto costosi. A differenza dei coetanei della Silicon Valley, che creano startup in garage, loro si chiudono in una cantina e iniziano a lavorare a un macchinario amatoriale. Si rivolgono alla comunità open source, selezionano schemi, chiedono consigli e alla fi ne realizzano Fabtotum, una stampante 3D di tipo sottrattivo e additivo. Partecipano a una competizione che li porta a sei mesi di pre-incubazione del PoliHub. Intanto si laureano e sognano di trasformare quel progetto in un’impresa. In tempi di credit crunch, quale banca è disposta a finanziare l’idea di due studenti, sviluppata in cantina e difficile persino da spiegare?
I limiti nelle politiche su lavoro e sviluppo hanno reso l’Italia uno degli Stati europei con la più alta probabilità che un giovane risulti un costo sociale anziché una risorsa. Suggerimenti per evitare il rischio di intrappolamento nella precarietà.
La rapida crescita della disoccupazione in Europa, successivamente alla crisi economica, si è concentrata sui giovani. Soprattutto nei Paesi mediterranei, la disoccupazione giovanile (che interessa chi ha meno di 25 anni) ha toccato punte allarmanti. In Spagna, Grecia, Portogallo e Italia, il tasso di disoccupazione rilevato da Eurostat all’inizio del 2013 era superiore al 40%, con punte del 50% in Spagna e Grecia. In particolare, la probabilità di essere disoccupato per un giovane è doppia, e in alcuni casi persino tripla, rispetto alla media dei lavoratori. Una generazione di giovani, quelli nati tra la fi ne degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, si ritrova a cercare un posto di lavoro in una congiuntura economica così depressa da rendere (quasi) vano ogni tentativo di trovare un’occupazione che offra qualche prospettiva di reddito e stabilità.
Nell’anno della scomparsa del grande romanziere, proponiamo un suo testo del 1970, in cui rifletteva con lucidità sul valore culturale della Tv e dei media di massa. E sulla tentazione dei cattolici di “perdersi”, cedendo a un crescente relativismo.
Romanziere appartato nella sua Brianza operosa, Eugenio Corti entra nella storia della letteratura italiana con due grandi libri: I più non ritornano e Il cavallo rosso. Il primo, edito da Garzanti nel 1947, è uno spoglio diario di un mese di sacca durante la ritirata di Russia, scritto da un giovane sottotenente; è una cronaca cruda dove gli uomini mostrano gli aspetti più diversi del proprio essere fi no alla brutalità selvaggia. Corti è protagonista e testimone di una micro-storia, la sua con i suoi uomini, ma nello stesso tempo vive la grande storia, il confl itto che stravolge l’Europa. Il cavallo rosso (1983) ha invece il respiro della narrazione epica: è il racconto della disfatta morale dopo la Seconda guerra mondiale, un mutamento narrato attraverso le vicissitudini di una famiglia nel cuore della Brianza. Attorno un’Italia che si incammina verso la modernità e la postmodernità. Molti lo indicano come il grande romanzo cattolico del Novecento. Nell’anno della sua scomparsa – lo scorso 4 febbraio, all’età di 93 anni – «Vita e Pensiero» ricorda Eugenio Corti con la pubblicazione di un testo del 1970, trovato negli ordinati archivi del suo studio.
Come notava Ivan Illich, uno dei drammi contemporanei è «la perdita dei sensi», che si manifesta oscillando tra i due estremi della bulimia sensoriale e di un’anoressia astratta, “digitalizzata”. Perché occorre una grammatica del sentire emozionale biblico.
«Come chi, messosi in mare su di una barchetta, viene preso da immensa angoscia nell’affidare un piccolo legno all’immensità delle onde, così anche noi soffriamo mentre osiamo inoltrarci in così vasto oceano di misteri» (In Genesim Homiliae IX, PG 12, 210). La stessa tensione di cui parla Origene alla soglia della sua impresa di commentare omileticamente la Genesi si ripete in chi vuole tentare anche solo un abbozzo della teologia biblica delle emozioni. Due sono le ragioni di questa paura. Da un lato c’è l’enorme fl uidità della defi nizione e classifi - cazione delle emozioni: in uno studio pubblicato nel 1981 da due ricercatori del Georgia Southern College (P.R. Kleinginna Jr. - A.M. Kleinginna, A categorized list of emotion defi nitions, with suggestions for a consensual definition, «Motivation and Emotion», 5, 1981, 4), si elencavano ben 92 definizioni a cui si accostavano 9 dichiarazioni scettiche sulla possibilità di definire una realtà così mutevole, affidata anche nella Bibbia – come vedremo – a una costellazione lessicale e simbolica complessa e varia.
La genialità come antidoto al dover scegliere solo tra alternative già prefissate. La ricerca dell’attitude, dell’impatto, del carisma. La capacità di cogliere il gusto del pubblico e la spontaneità degli artisti. Che sanno esser grati solo se sono liberi.
Incontro Claudio Cecchetto nel suo modernissimo ufficio milanese. Alle pareti sono appesi molti dei premi e dei riconoscimenti che ha ricevuto nella sua poliedrica carriera. Spicca poi in bella mostra il manifesto del brevetto della lattina a doppia apertura e membrana divisoria interna, quel suo progetto in stile davinciano che nessun produttore di bibite ha voluto realizzare. Sull’enorme monitor del suo computer compaiono gli appunti per un nuovo e innovativo format televisivo quasi ultimato.
Da alcuni decenni il maestro nell’arte di educare, forgiato dall’esperienza pratica, è stato rimpiazzato dal ricercatore scientifico: dominano professori estranei o sfuggiti al mondo della scuola. L’oggetto della disciplina pare troppo ampio e poco definito. “Pedagogia” sta per teoria dell’educazione. Come materia di insegnamento e di studio si è affermata soltanto a partire dall’Illuminismo nella seconda metà del XVIII secolo. Si trattava però non di una scienza, ma di una disciplina artistica: era definita teoria dell’arte di educare (Kunstlehre). Essa aveva un fi ne pratico: quello di avviare alla disciplina o preparare teoricamente insegnanti, sacerdoti e genitori al corretto agire educativo. Il suo contenuto era totalmente orientato alla prassi educativa; doveva essere utile ai pedagoghi e contribuire alla loro capacità educativa. Pedagoghi (Pädagogen) era il nome che si utilizzava per indicare gli educatori. I teorici dell’educazione e i docenti di pedagogia venivano chiamati pedagogisti (Pädagogiker). Il loro compito era riflettere, insegnare e scrivere sull’educazione – oggi diremmo: la ricerca pedagogica. Queste due professioni (quella dei pratici dell’educazione e quella dei teorici dell’educazione) erano però strettamente interconnesse.
Giovanni Battista Montini, fin da giovane, colse nel Sommo Poeta la luce dell’arte che disegna la grandezza di Dio e della creazione. Non per caso, ai padri conciliari donò copia della Commedia, sorta di “guida” alla contemplazione e alla preghiera.
Il 7 dicembre 1965 Paolo VI rendeva pubblica, septimo exeunte saeculo a Dantis Aligherii ortu, la Lettera apostolica “Motu Proprio”, Altissimi cantus; il giorno successivo, 8 dicembre, si chiudeva il Concilio Vaticano II. La Lettera apostolica era stata preceduta da due epistole, una all’arcivescovo di Ravenna, in data 14 marzo 1964, l’altra a quello di Firenze, in data 23 aprile 1965; inoltre, per volontà dello stesso pontefice, il 19 settembre 1965 era stata portata una croce d’oro sulla tomba del poeta a Ravenna e il 14 novembre una corona d’oro era stata collocata nel Battistero di san Giovanni a Firenze, alla presenza di circa cinquecento padri conciliari e del segretario di Stato Amleto Cicognani. Se la ricorrenza dei settecento anni dalla nascita di Dante era, per molti motivi, un ineludibile impegno per papa Montini, la sua devozione verso il Poeta deve però essere sottratta all’incombere di scadenze calendariali, risalendo, a monte, agli anni della giovinezza, e, discendendo, a valle, ben oltre il 1965.
Dagli anni Ottanta la società italiana coltiva una coazione allo svago immotivato e asseconda con inerzia crescente i processi di dissoluzione delle relazioni. E se ci riappropriassimo di una tradizione, educativa e comunitaria, che ci contraddistingue?
La Messa al mattino, il cinema di pomeriggio. Una volta gli oratori funzionavano così, nel senso che, se volevi entrare al cinema, prima dovevi andare a Messa. Oggi sembrerà poco democratico, ma i vecchi parrocchiani di Bozzolo, giù nel Mantovano, ricordano bene che negli anni Cinquanta perfino don Primo Mazzolari, tromba dello Spirito Santo e antesignano del Concilio Vaticano II, applicava la regola alla lettera, non contemplando sconti né eccezioni. La Messa, il Rosario, la preghiera del mattino e la benedizione della sera sono la struttura portante dell’educazione oratoriana. Tutto il resto si fa, ed è importante che si faccia, perché l’elemento religioso provvede a darne senso e ragione. Senza la preghiera non ci sarebbe l’oratorio. Qualcosa però ci sarebbe ed è, a ben vedere, la porzione più rilevante dell’immenso parco-giochi occidentale, una società ormai assuefatta all’idea di essere più surreale che sur-moderna, più posticcia che post-qualcosa.
Potrebbe essere una delle alternative migliori in risposta alla riduzione delle risorse produttive secondo le statistiche della Fao. Una pratica che forse a noi crea disgusto, ma già comune tra le popolazioni di vaste aree di Africa, Asia e America Latina.
Siamo tutti al corrente che la popolazione mondiale è in crescita, e lo è in modo ininterrotto soprattutto da dieci anni a questa parte grazie allo sviluppo economico del grande continente asiatico e del Sud America. La stima Fao prevede il raggiungimento di una numerosità della nostra specie pari a circa 9 miliardi entro il 2050. Maggiore la popolazione, maggiore la richiesta di cibo: in questo non ci differenziamo dalle altre specie animali e vegetali. Conseguenza diretta è la necessità di maggiore produzione agricola e la riduzione delle perdite di cibo e, parallelamente, la maggiore richiesta di proteine.
Uno sguardo irriverente e disincantato, rivolto all’ossessione dell’Occidente per la libertà, idolo dell’epoca contemporanea. E per alcuni imprudenti e gravi eccessi, che ci stanno facendo pagare pesanti ricadute in termini economici e sociali.
Non è cambiato molto rispetto a quel vecchio fi lm di Cecil B. DeMille, I dieci comandamenti, quando Charlton Heston, nei panni di Mosè, scendeva dal Sinai con le tavole della legge e trovava il suo popolo adorante verso un vitello luccicante artefatto lì per lì dagli artigiani orafi . «Non avremo altro Dio all’infuori dei nostri idoli»: così sembra recitare il primo comandamento del nostro vecchio, caro, adorante Occidente. E soprattutto: non avrai altro dio all’infuori della libertà. Nessuno tocchi la libertà, nessuno si permetta di giudicare le scelte della mia libertà, la libertà deve essere libera, appunto, altrimenti che libertà sarebbe? Una libertà zimbello? Una libertà che si fa mettere i piedi in testa, sarebbe come un padrone che non comanda in casa sua; la libertà, dicevamo, deve essere libera di posare il suo sguardo dove vuole, non deve avere limitazioni, perché altrimenti si sentirebbe frustrata, limitata, non incoraggiata nel suo slancio vitale verso l’infinito e oltre, come anela Buzz Lightyear
Le politiche del neoliberismo hanno fallito, aggravando le disuguaglianze senza far crescere il benessere. Partivano da un falso concetto di libertà rinnegando i valori dell’Illuminismo. L’alternativa del “capitalismo progressivo” fra Stato, mercato e società civile.
Il dibattito promosso dalla rivista sulla cultura nel nostro Paese si conclude con alcune voci del mondo cattolico. In una fase di crisi evidente, esplosa durante la pandemia, come la Chiesa può continuare a parlare al Paese? E attraverso quale cultura?
La letteratura per l’infanzia nel nostro tempo è in larga parte insignificante: pubblicizzata e descritta come oggetto di consumo, è diventata inoffensiva e scontata. Tornare a Jules Verne e al Capitano Nemo per lottare contro la disumanità del nostro tempo.