Umanesimo necessario

Si discute e ci si schiera, oggi più che mai, su umanesimo e civiltà delle macchine. Umanesimo: cioè scienza, autocoscienza e valore dei singoli esseri umani e dell’umanità intera. Civiltà delle macchine: cioè priorità dell’organizzazione e dell’efficienza operativa, economico-sociale e del dominio tecnico sulla natura in noi e fuori di noi.
In proposito credo che torni a essere utile una categoria filosofica moderna come alienazione. Il termine è bifronte. Si riferisce, in senso sociale, al fatto che gli esseri umani sono asserviti alla produzione di merci; e in senso psicologico, mentale, alienazione è estraneità, estraniazione per cui gli individui non si riconoscono più nei prodotti del proprio lavoro, sentiti come avversi e nemici, o anche idolatrati a causa del loro soverchiante potere che da un lato impedisce una vera libertà e dall’altro appare come un idolo da cui si è ipnotizzati.
Oggi le macchine e la produzione di tecnologie della comodità e della velocità stanno creando, hanno già creato una trasformazione antropologica che mette in discussione e in ombra l’umanesimo morale, sociale e culturale. Si delinea una nuova identità umana che rifiuta di riconoscersi nella memoria del suo passato, in una o più tradizioni nelle quali l’humanitas è stata in vario modo centrale.
Un tale patrimonio millenario è esattamente ciò che rende umano, che umanizza il genere umano. Se è vero, come si ripete a vuoto, che le tecnologie e le macchine non sono altro che strumenti nelle nostre mani, questo accresce l’importanza del soggetto umano che utilizza oggetti sempre più potenti come strumento. Di fatto stiamo vedendo che sono gli esseri umani gli strumenti usati dalle macchine per mettersi in funzione. Per non parlare di nuove macchine sempre più automatiche capaci di attivarsi anche da sole, decidendo cosa fare e a quale scopo. Ecco allora che la formula “civiltà delle macchine” assume un significato più concreto: esseri umani guidati da macchine, e la cui mentalità e cultura è centrata sul macchinismo.
Come hanno ripetutamente spiegato i sociologi Lewis Mumford e Serge Latouche, è l’intera struttura sociale a funzionare come una Megamacchina. Recentemente su questo si è fermato Fabian Scheindler in La fine della Megamacchina. Storia di una civiltà sull’orlo del collasso, in cui si riprende una tradizione di sociologia critica che ha sempre discusso l’idea di progresso ininterrotto e lineare. Quanto all’umanesimo, è stato George Steiner uno degli ultimi grandi eredi della critica letteraria classica intesa come critica sociale, a sottolineare la centralità della lettura dei classici antichi e moderni, ma anche l’importanza dell’atto in sé e dell’esperienza della lettura, “una forza umanizzante” di cui avremo sempre più bisogno.
Il compito umanistico di cui gli intellettuali dovrebbero farsi carico non è certo facile, anche perché molta cultura novecentesca “d’avanguardia” è stata ossessionata da un’idea di trasgressione che ha voluto ignorare l’umanesimo come filosofia e disciplina della vita. Senza regole, senza esercizio delle facoltà mentali, senza lavoro su sé stessi e autoperfezionamento non c’è paideia, cioè scuola, trasmissione del sapere, insegnamento e apprendimento. In questo immane quanto necessario lavoro di rilettura e attualizzazione del passato dovrebbero impegnarsi le nostre università, che però nell’ultimo mezzo secolo si sono spesso segnalate soprattutto per la loro ubbidienza alle mode ideologiche.
Alfonso Berardinelli
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