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∀ intellettuale ∃ un’idea

07.06.2025

di Vittorio Marchis

Per ogni intellettuale esiste un’idea, questo è il significato dello strano titolo, scritto con i simboli di una formula logico-matematica.

Questo intervento è stato sollecitato dall’ultimo articolo di Giuseppe Lupo apparso sul numero di gennaio di quest’anno in questa Rivista. Alla base di queste povere considerazioni è ancora il libro del cardinale Daniélou, La cultura tradita dagli intellettuali, che dopo anni mi trovo sul tavolo. È difficile oggi capire che cosa voglia significare la parola intellettuale, anche perché la stessa università, quella che hanno frequentato e vissuto molti di quelli che oggi leggono queste righe, forse non esiste più. Come l’invenzione della stampa ha cambiato il mondo e ha messo in solaio ciò che ora è oggetto solo di studi filologici, così la “rivoluzione digitale” è una vera rivoluzione: e non ce ne stiamo accorgendo. Basterebbe guardarsi intorno con gli occhi di un antropologo, che esplora un ambiente a lui ancora sconosciuto, per osservate tutta una serie di fenomeni. Le edicole dei giornali stanno scomparendo, in silenzio. Le immagini, un tempo fisse, immobili, si stanno sempre più colorando e soprattutto si muovono. Mai una parola anglosassone come “movie” è stata più azzeccata e quella strano cinematografo, un prodotto linguistico di presunte etimologie greco-classiche è davvero un anacronismo. Le immagini avvolgono in quella strana dimensione che alcuni chiamano metaverso. È strano che una fantasia fantascientifica si stia dimostrando così vera, in così poco tempo. La scuola cerca di inseguire la moda, ma non ci riesce perché stiamo disimparando a usare le mani per scrivere. Un tempo c’erano i gessi sulle lavagne di ardesia che, se male usati, producevano stridii da fa accapponare la pelle. Calamai e inchiostri e pennini sono relegati nelle bacheche di qualche museo nostalgico e ormai basta parlare per vedere scritte le nostre idee strampalate e molte volte sgrammaticate. Eppure, ci sono stati, e ci sono, ministri, e non parlo solo del nostro Paese, che hanno auspicato la morte dei libri di testo a favore di tavolette elettroniche, che di quelle antiche di cera non hanno nulla in comune, neppure il profumo. Ma non vorrei essere frainteso, non sono un laudator temporis acti. La mia formazione, se pure iniziata da un liceo classico, è approdata all’ingegneria in un politecnico che da sempre ha sposato l’idea di un progresso tecnologico. Tutto questo mi ha fatto capire, o almeno lo spero, che davvero stiamo attraversando un processo che, come tutte le rivoluzioni, è irreversibile. L’irreversibilità di un fenomeno è una delle leggi di natura più potenti. Nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si degrada. Lo dice il Secondo Principio della Termodinamica che enuncia appunto la legge dell’entropia, ma essa non si applica solo all’energia, per cui è impossibile il moto perpetuo, ma anche alla materia e soprattutto all’informazione. Tutto ciò ci dovrebbe far meditare perché per far crescere un cristallo si deve spendere dell’energia e ciò accade anche quando si scrive un testo: le parole non si mettono in ordine da sole e l’illusione che l’intelligenza artificiale sia la nuova magia purtroppo è dilagante.

Ritorno però al motivo per cui mi sono messo a scrivere queste mie considerazioni. L’intellettuale come leggo in rete dovrebbe essere “persona fornita di una buona cultura o cultore di studi, spec. in quanto ritenuto capace di esercitare una profonda influenza nell'ambito di un'organizzazione politica o di un indirizzo ideologico”. Ma ho usato il condizionale: il Vocabolario Treccani che consulto in Internet afferma che “nell’uso contemporaneo ha spesso valore ironico o limitativo, per indicare ostentazione di gusti e costumi raffinati o superiorità culturale e spirituale, non di rado solo immaginaria”. Eppure, gli intellettuali in passato hanno avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della nostra civiltà, e non solo quella occidentale. Tant’è che sappiamo che in molte “rivoluzioni” sono stati sterminati perché risultavano un pericolo per la classe egemone.

Passando alle esperienze personali, che mi vedono impegnato sul fronte delle scienze dell’uomo e della società in un ambiente tecnologicamente centralizzato come quello di un politecnico, ritengo che solo un’apertura transdisciplinare verso paradigmi, che in teoria possono anche confliggere con gli statuti epistemologici dei singoli settori in cui si opera, può offrire qualche speranza per una nuova “scuola”. Qui parlo di scuola come luogo fisico in cui si crea una comunità di saperi nel pieno confronto delle idee, ma soprattutto nel raggiungimento di una consapevolezza che solo un nuovo umanesimo ci può salvare. Se qualche disciplina dovesse sorgere con la pretesa di diventare egemone nei confronti di una conoscenza globale potrei di certo azzardare che questo sarebbe il preludio della estinzione della nostra specie. È per questo che l’esperienza di un corso destinato agli allievi della Scuola di Dottorato del mio Ateneo, e intitolato Antropologia della tecnica, potrebbe diventare un primo passo verso quell’equilibrio che tutti cerchiamo, anche eticamente, nella società digitale. Ma le difficoltà non mancano, e i giovani apprendisti-ricercatori, gli scienziati-intellettuali di domani, rischiano di essere sommersi dalle individualità frammentate di una miriade di discipline senza un denominatore comune che le renda trasmissibili e condivisibili.

Mi rendo conto che, se il pensiero può modificare in meglio il nostro status, tutto ciò deve emergere da un consenso e il consenso non si può formare che intorno a un gruppo, a una communitas. A questo punto si ritorna al punto di partenza: perché la nostra società trovi una nuova via nel nuovo sistema indotto dalla cosiddetta rivoluzione digitale, bisogna che nasca una nuova scuola, fondata su un principio di condivisione di valori. La frammentazione indotta dalla presunta libertà dell’individualismo più spinto non porta certamente a nessun futuro. E qui mi rifaccio a un altro articolo apparso sullo stesso numero della Rivista. Non si tratta qui di estendere le mie considerazioni a una dimensione economico-finanziaria di cui sono incompetente, ma di prendere a prestito il modello di una “misura della frammentazione”, ma in questo caso della cultura, dei saperi. Faccio qui riferimento all’articolo di Romy Hamaui, Il serpente in paradiso… Mi piacerebbe trovare una formula in grado di valutare la frammentazione culturale nel corso del tempo, ma mi pare di poter ipotizzare in questi ultimi tempi un picco nel grafico della frammentazione della cultura. Il principio di indeterminazione può essere ancora una volta evocato in analogia, come una metafora: più cerchiamo di approfondire la nostra conoscenza più essa ci sfugge.

Vittorio Marchis

Vittorio Marchis è un ingegnere, storico, accademico italiano. Storico dell'Ingegneria, è professore emerito di Storia della Scienza e delle Tecniche presso il Politecnico di Torino, di cui ha diretto il Centro Museo e Documentazione Storica.

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