Il Nobel per l’economia premia gli studiosi delle istituzioni

Quest’anno il Premio Nobel per l’Economia è stato assegnato aDaron Acemoglu, Simon Johnson e James Robinson (AJR) per la loro ricerca sul modo in cui le istituzioni si formano e influenzano la prosperità delle nazioni. Non è la prima volta che programmi di ricerca incentrati sulle istituzioni hanno condotto al Premio Nobel. Nel 1993 era stato il turno di Douglass North, mentre nel 2009 era stata la volta di Elinor Olstrom, prima donna a ricevere il prestigioso riconoscimento da parte della Banca Centrale di Svezia. Tuttavia, questa è la prima volta in cui vengono premiati degli economisti che hanno individuato nelle istituzioni uno dei fattori fondamentali che spiegano perché alcune nazioni sono diventate ricche e prosperano mentre altre sono povere e non riescono a migliorare il tenore di vita di ampia parte della popolazione. Un punto che – per mera onestà intellettuale – era già stato analizzato nei lavori di Mancur Olson, uno scienziato politico che per primo aveva posto l’enfasi sulla rilevanza di coalizioni (o gruppi di interesse) distributive o altruiste nell’influenzare l’ascesa e il declino delle nazioni.
Secondo AJR, le istituzioni non sono una panacea ma offrono una cornice fondamentale per consentire l’attivazione dei processi di accumulazione di fattori di produzione e di generazione di innovazione che portano un sistema economico a crescere nel lungo periodo. I lavori di AJR gettano luce sul motivo per cui un’economia come gli USA gode da diversi decenni di una persistente crescita della produttività e del reddito pro-capite. La continua crescita degli USA è anche il frutto di istituzioni inclusive. In ambito strettamente economico ciò significa che i diritti di proprietà sono definiti in modo chiaro e vengono adeguatamente tutelati, fornendo incentivi appropriati per dar luogo a investimenti e per sostenere sforzi innovativi. Inoltre, un assetto istituzionale di tipo inclusivo è caratterizzato dalla presenza di istituzioni politiche vincolate nel loro operato da un adeguato sistema di pesi e contrappesi. In un contesto di questo tipo emergono sinergie positive tra le istituzioni economiche e quelle politiche. Il potere politico forgia istituzioni economiche che garantiscono condizioni di partenza per tutti allo stesso livello, prive di condizioni di privilegio. La retribuzione di chi partecipa allo sforzo produttivo avviene suddividendo i benefici su un’ampia parte della popolazione e limitando la possibilità che parte di queste risorse vengano utilizzate per arrivare a godere di condizioni di favore stabilite dal potere politico. Si instaura un circolo virtuoso che nel lungo periodo genera prosperità.
Ben diverso è il caso di un Paese come il Venezuela che – nonostante l’enorme dotazione di risorse naturali – si trova ormai a vivere una condizione di collasso. La crisi umanitaria sofferta dalla maggior parte dei venezuelani da quasi due decenni è il risultato di istituzioni estrattive. Ciò significa che i diritti di proprietà sono imprecisamente definiti e scarsamente tutelati, favorendo l’attività di espropriazione da parte di una ristretta parte della popolazione. Inoltre, l’assetto politico è totalmente sprovvisto di adeguati pesi e contrappesi. Operare in uno scenario come questo comporta un esito (quasi) scontato: il continuo deterioramento del tenore di vita per la maggior parte della popolazione per effetto di veri e propri circoli viziosi tra le istituzioni economiche e quelle politiche che scoraggiano accumulazione di capitale e innovazione. In questo contesto, i pochi soggetti dotati di rilevante potere economico e politico sono interessati non tanto all’accrescimento del reddito quanto alla possibilità di accaparrarsi una quota sempre più cospicua del prodotto. Per mantenere in vita uno status quo che privilegia una ristretta élite diventa fondamentale evitare che chi è dotato di potere politico possa essere rimosso dall’incarico. Da qui l’assenza di pesi e contrappesi tipica di regimi autocratici o dittatoriali – come la Repubblica bolivariana instaurata da Chavez e proseguita da Maduro. Inoltre, è essenziale che siano all’opera condizioni distorsive che spingano a investire non tanto in innovazione quanto in legami con il potere politico, per limitare il rischio che l’attività innovativa condotta da terzi possa cambiare la disponibilità di risorse di cui godono i detentori del potere economico e politico.
I lavori di AJR consentono anche di comprendere sotto quali condizioni si vengono a formare istituzioni diverse e perché, una volta disegnate, le istituzioni siano difficili da cambiare. Ad esempio, un’iniziale distribuzione iniqua di risorse o di forze (anche legata alla disponibilità di armi) consente all’élite di modellare le istituzioni a proprio vantaggio e di mantenerle in vita nel tempo. È questo (spesso) il caso di Paesi ricchi di risorse naturali, il cui sfruttamento è a vantaggio di pochi soggetti, oppure di Stati nei quali il maggior potere contrattuale di cui dispongono alcuni particolari gruppi di interesse deriva dallo sfruttamento della violenza.
L’idea alla base dei lavori di AJR è semplice ma potente. Ovviamente non è in grado di spiegare tutti i casi di successo e di insuccesso relativamente alla crescita dei Paesi. In particolare, come già evidenziato da molti, non riesce a dar conto del miracolo economico cinese. Una crescita straordinaria realizzatasi nel corso degli ultimi 40 anni nonostante la presenza di istituzioni ben lungi dall’essere inclusive. Ma, come ha dichiarato Simon Johnson (in un’intervista resa all’indomani del conferimento del Nobel), l’influenza delle istituzioni è chiara soprattutto nel lunghissimo termine. Se questa interpretazione è corretta, l’inequivocabile tendenza verso istituzioni (soprattutto politiche) sempre più estrattive impartite da Xi Jinping negli ultimi anni avrà come effetto quello di frenare ancora di più la crescita della Cina, in cui è già in corso un notevole rallentamento. Il tempo ci dirà se anche su questo punto AJR hanno avuto ragione.
Marco Lossani
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