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Il senso dello Stato

19.07.2025

di Giovanni D’Angelo

Oggi ci sono generazioni di studenti universitari che non hanno vissuto la prima metà degli anni ’90 del secolo scorso. Tale constatazione banale assume un valore diverso se posta in relazione al tema della memoria delle stragi di mafia di quel periodo. In alcune università italiane, di recente, è stata organizzata un’iniziativa significativa, un incontro intitolato “1992/1993: la mafia colpisce le grandi città”. “Per non dimenticare” era il sottotitolo… non è possibile racchiudere in poche righe le tante riflessioni che l’incontro ha sollecitato, ma voglio condividere alcuni ricordi personali di quegli anni. Anticipo subito che l’esito di questi ricordi è per così dire duplice, perché restituiscono insieme la dimensione del dolore e del riscatto, della tragedia e della reazione.

Vi sono accadimenti rispetto ai quali il ricordo è nitido, pur a distanza di tempo, rispetto al proprio vissuto; per me questo vale esattamente rispetto alle stragi di Capaci e di via D’Amelio: ricordo con esattezza dove mi trovavo e che cosa stavo facendo. La dimensione, direi l’enormità tragica dell’evento, ha fatto sì che io ricordi financo alcuni particolari del momento in cui appresi la notizia.

Quelle stragi segnarono anche la nostra quotidianità. All’indomani della strage di via D’Amelio, in Sicilia arrivò l’esercito, una delle risposte messe in atto dal Governo di allora; vorrei che per un attimo immaginaste le nostre città piene di soldati con grandi fucili, con i blindati a presidio di tribunali, di piazze e luoghi sensibili, delle residenze dei magistrati più esposti. Dopo un po’ sopraggiunse quasi l’abitudine nel vivere in città di fatto militarizzate, ma di normale per un Paese che aveva da poco firmato il Trattato di Maastricht non c’era proprio nulla, e lo si percepiva chiaramente.

A questi ricordi, è per me inevitabile accompagnare quello di un evento che precedette di poco la stagione delle stragi del 92/93. Mi riferisco alla barbara uccisione, anche per le modalità di rara crudeltà, del giudice Rosario Livatino, avvenuta il 21.9.90, in quella stessa provincia di Agrigento dove, in quegli anni, i dati dei morti ammazzati erano simili a quelli di una guerra civile. In famiglia si assisteva, con turbamento e con una certa rabbia, allo spettacolo di tanti piombare nella nostra cittadina, vestiti a lutto, accalcandosi a sdottoreggiare sull’evento. Altro che “giudice ragazzino”, come fu improvvidamente definito da chi non conosceva affatto la sua storia, ma uomo dello Stato lucidamente consapevole dello sforzo necessario per rompere gli schemi di una criminalità, fino ad allora, invincibile, onnipotente e poco disturbata. Non è questa la sede per ripercorrere la straordinaria figura del giudice Livatino; desidero solo ricordare come la sua testimonianza, anche attraverso l’amore custodito e dolcissimo dei suoi genitori, turbò profondamente papa Giovanni Paolo II durante la sua visita pastorale ad Agrigento nel maggio del ’93. Fu anche questa scintilla a innescare l’anatema contro la mafia, contro la civiltà della morte, che il Papa scandì ad alta voce proprio nella Valle dei Templi. Quel grido rimane indelebile, risuona fortissimo, con tutta la potenza della fisicità di Giovanni Paolo II: “lo dico ai responsabili, convertitevi, una volta verrà il giudizio di Dio”, l’indice della mano destra sollevato e vibrante, la ferula con la croce nella mano sinistra… Un messaggio di rottura devastante nei confronti dell’atteggiamento compromissorio di una parte della c.d. società civile e della stessa Chiesa cattolica, non solo locale. Un’immagine di una forza semplice e dritta, nella quale ad alcuni di noi parve quasi di riconoscere il fra’ Cristoforo de I promessi sposi che si scaglia con veemenza contro don Rodrigo: “verrà un giorno…”. La reazione della criminalità non tardò: nel luglio del ’93 a Roma, la mafia organizzò due attentati, quasi in contemporanea a quello di via Palestro a Milano, alla basilica papale di San Giovanni in Laterano e alla chiesa di San Giorgio in Velabro.

Molti, dopo quel maggio del 1993, trovarono una forza in più per manifestare pubblicamente quella richiesta di riscatto, prima di tutto sociale, che all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio prese le forme più diverse, a volte simboliche e artistiche, come quella dei lenzuoli bianchi o delle maglie con l’immagine dei giudici Borsellino e Falcone con la scritta “gli uomini passano, le idee restano” che accompagnarono alcune delle manifestazioni giovanili più partecipate di sempre.

Quella stagione, nella sua tragicità, segnò un punto di non ritorno (non calcolato dalla mafia) rispetto alla presa di coscienza della necessità che il contrasto alla criminalità mafiosa fosse portato anche sul piano culturale, sociale, della educazione alla legalità. Come scrisse Gesualdo Bufalino all’indomani delle stragi del ‘92, la mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari.

Oggi i risultati nel contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso sono evidenti, certamente più evidenti sul piano per così dire militare, ma non ancora soddisfacenti sul piano dell’infiltrazione nel tessuto politico, economico e sociale.

Trovo sempre opportuno ricordare, forse per la mia formazione, che la criminalità organizzata, anche quella di stampo mafioso, è un fenomeno umano e sociale che per essere sconfitto richiede prima di tutto un modo nuovo di fare amministrazione: l’interesse pubblico è per definizione “alternativo” a quello mafioso, perseguirlo e tutelarlo con strumenti certi ed efficaci significa contrastare le radici del fenomeno criminale. Tantopiù dovrebbe essere del tutto estranea l’idea che perviene all’estetizzazione della funzione pubblica, strumentalizzata come privilegio e come mezzo per relazioni intersoggettive o per una tribuna mediatica che sottolinei l’affermazione sociale.

Ma per essere sconfitto il fenomeno mafioso richiede anche un modo di essere cittadini, che passa dal rifiuto di ogni servitù volontaria, per usare le parole di Leonardo Sciascia per alludere ad un diffuso sistema, non semplicemente subito o accettato, ma scelto e perseguito anche da una posizione di indipendenza, in cui prevale l’interesse particolare in totale dispregio del bene comune e le coscienze facilmente si acquietano fino alla più completa anestesia etica. Il senso dello Stato, che le vittime di mafia ci consegnano con il loro sacrificio civile, è in primo luogo senso della responsabilità individuale, a cui tutti noi siamo chiamati.

Giovanni D'Angelo

Giovanni D'Angelo è professore ordinario di diritto amministrativo nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Tra le principali pubblicazioni si segnalano: "Le prove atipiche nel processo amministrativo" (2008); "Conflitto di interessi ed esercizio della funzione amministrativa" (2020); "Tra procedimento e processo" (a cura di - 2024).

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