La giustizia richiede attenzione

L’efficacia deterrente di severe sanzioni punitive nei confronti del crimine è molto limitata e comunque dovrebbe avere un ruolo secondario nell’ambito di un’ampia gamma di strategie preventive di regolazione. Lo ha ricordato anche di recente John Braithwaite, l’illustre criminologo australiano, componente del Consiglio scientifico dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia Penale dell’Università Cattolica del Sacro cuore, insignito proprio quest’anno del premio Balzan per la sua opera nel campo della giustizia riparativa.
Il fatto che questa verità, suffragata da numerosi studi empirici, sia per lo più contraddetta nella pratica legislativa, non solo ma certo particolarmente nel nostro Paese, porta allo scoperto un serio problema, oltre che di governo delle politiche pubbliche, soprattutto culturale. È infatti l’intera cultura di un’epoca e di una collettività a trovare rispecchiamento nella giustizia penale e, dunque, nella concezione sul se, il modo e il quanto si debba e si possa fare ricorso alla punizione per rispondere ai problemi comuni. Ecco allora che le cangianti fattezze del diritto penale, tanto in the books quanto in action, costituiscono – per chi le sappia interpretare anche in questo senso – un fedele sismografo di vasti sommovimenti e fratture etico-sociali, solo apparentemente estranei a quanto accade nelle aule giudiziarie, dentro le mura di un carcere o negli uffici legislativi intenti a scrivere nuove norme incriminatrici da riversare nell’ordinamento.
L’estensione del campo penale può ritenersi inversamente proporzionale a quanto una società è in grado o disposta ad attingere alle (e, prima ancora, ad alimentare le) sue risorse di intelligenza e conoscenza: un giacimento di valore inestimabile, la cui capienza varia a seconda delle epoche e delle contingenze storico-politiche, essendo correlata a quello sviluppo umano che da vari anni viene misurato nei diversi paesi con un apposito “indice” (HDI).
Su questo dato incide significativamente il livello di istruzione diffuso in una società, determinato anche sulla base della scolarizzazione media dei suoi componenti. Peraltro, l’intensità e profondità del “pescaggio” in un tale bacino cognitivo più o meno abbondante dipende molto dalla complessione etica e culturale dei decisori pubblici, nel senso più ampio con cui li si può intendere. E forse soprattutto da quel sommo bene morale che è la capacità di attenzione, se è vero, come scriveva Simone Weil, che la formazione di questa inestimabile dote dovrebbe essere «il vero obiettivo e l’interesse pressoché unico degli studi», «anche se oggi pare lo si ignori». Ciò che serve, a individui e collettività, è almeno il «potere di attenzione» che, come per il “buon samaritano”, «è appena sufficiente» perché un uomo «possa semplicemente guardare quel poco di carne inerte e nuda sul ciglio di una strada». Un potere che però richiede molta fede nella verità e la fiducia di potervisi avvicinare con l’impegno ad allargare le proprie conoscenze e capacità di comprensione degli altri, del prossimo nostro,
Il patrimonio di risorse “attentive” di una collettività, per quello stringente circuito pratico-culturale già ricordato che avvince l’esperienza penale ai mondi circostanti, è ben rivelato dall’ordine con cui la risposta punitiva si presenta alla mente e poi si traduce negli atti dei soggetti istituzionali, in primis il legislatore. Potremmo dire che una troppo precoce reattività punitiva sia indizio di un pensiero primitivo e poco sviluppato, se non anche di una debole tempra morale, scarsamente incline a «semplicemente guardare quel poco di carne inerte e nuda sul ciglio della strada». E non solo la «carne» di chi patirà sul proprio corpo i rigori di sanzioni superflue o esagerate (e già del processo, che conduca alla condanna oppure no), ma anche delle potenziali vittime, che dalla facile scrittura in qualche riga dell’ordinamento di nuovi reati o di inasprimenti di pena potranno sentirsi a assai poco protette, specie in assenza di quel ragionato mix punitivo e regolativo raccomandato da Braithwaite.
Da questo punto di vista il legislatore italiano vecchio e nuovo non esibisce credenziali confortanti. Ricordiamo il “rimedio” alle stragi nella circolazione stradale, concepito nel 2016 sotto forma di pene severissime per l’omicidio e le lesioni stradali. Una misura che non sembra avere inciso minimamente sul numero e la gravità degli incidenti. E, a seguire, la colata di nuove fattispecie incriminatrici e inasprimenti sanzionatori – come la previsione per decreto legge del nuovo delitto cosiddetto anti-rave, la criminalizzazione della condizione in sé di immigrato irregolare, l’elevazione a “reato universale” della surrogazione di maternità, ecc. – con tanto di ricorrenti quanto improvvisati “pacchetti sicurezza”. Ma sono solo pochi tra gli innumerevoli esemplari di legislazione nei quali la ribalta conferita alla dura maschera repressiva dello Stato fa passare in secondo piano le omissioni di interventi, che sarebbero più risolutivi perché pensosamente attenti a contrastare le vere e composite cause dei fenomeni socialmente dannosi.
Quando, nel 2014, Papa Francesco, rivolgendosi alla Associazione Internazionale di Diritto Penale, invitava alla cautela in poena e a guardarsi dal populismo penale, rideclinava in termini morali e civili la saggia visione umana espressa molti anni prima ad esempio dall’antropologo Gregory Bateson. Specie quando questi aveva lamentato che le nostre società sembrassero preferire i divieti alle esigenze positive, legiferando contro le variabili usurpatrici invece di «incoraggiare le persone ad avere conoscenza delle loro libertà e flessibilità e a usarle più spesso». A coltivare e usare più spesso, potremmo aggiungere, la loro capacità di attenzione.
(l'immagine è la copertina del libro di Gabrio Forti Il tempo della parola giusta, a cura di Matteo Caputo e Arianna Visconti)
Gabrio Forti
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