La protesta degli studenti e il senso della scuola

Il gesto degli studenti saliti agli onori della cronaca per essersi rifiutati di sostenere l’esame di maturità in segno di protesta contro il sistema di valutazione della scuola e contro l’eccessivo peso dato ai voti ha suscitato un dibattito molto ampio. È stata un’azione molto forte e provocatoria, ma ogni protesta vera è così. Un’azione legittima: hanno deciso loro di farla e ne hanno sopportato le conseguenze, che non sono ricadute su nessun altro. In molti sono scesi in campo: indignati, persone pronte a strumentalizzare il fatto, soloni che hanno pensato bene di spiegare a quei ragazzi come avrebbero dovuto comportarsi, invece di fare ciò che hanno deciso.
Io credo invece che, di fronte a un gesto simile, che lo si condivida o meno, la cosa migliore sia porsi e porre delle domande. Provo a porne tre, due ai miei colleghi e a me stesso e una ai miei studenti e, perché no, anche a quei ragazzi.
Prima domanda: che senso hanno i voti nella scuola? Sono dei punti d’appiglio per una ascesa o sono un giudizio divino sulla qualità di una persona? Io penso che essere valutati sia molto utile, sia una palestra importante. Ottenere un buon voto frutto di impegno è formativo e gratificante. Bisogna però sempre ricordare che i voti misurano una prestazione scolastica e nulla dicono della qualità di una persona. I nostri allievi non sono mai i voti che prendono: sono esseri umani unici e irripetibili, che vanno accolti con stupore e rispetto nelle loro fragilità e nei loro punti di forza. I voti vanno sempre spiegati, contestualizzati, utilizzati come sprone al cammino: un voto anche molto negativo sarà così un’ipotesi di lavoro, l’inizio di una possibile svolta, non un colpo di machete su radici già fragili. Varrebbe poi la pena di ricordare sempre che le intelligenze sono multiple, che ognuno ha i suoi talenti: è del tutto normale fare molta fatica in alcune materie e riuscire con facilità in altre, così come è assolutamente normale che uno studente possa trovarsi molto male in un certo indirizzo di scuola superiore e molto bene in un altro, magari dopo un cambio. Non esistono materie di serie A e di serie B, non esistono indirizzi di serie A e di serie B. Esistono studenti ognuno con una scintilla di bellezza, ognuno con un dono da condividere, ognuno con le sue capacità, che vanno accompagnati a trasformare le loro capacità in dono per altri.
Seconda domanda: che cos’è per me la scuola? Una casa che accoglie o un laboratorio per selezionare i migliori? Ricordo una frase da brividi sentita in sala prof qualche anno fa: chi la pronunciò massacrava deliberatamente gli studenti con richieste costantemente ostiche, “così grazie a me”, disse, “passeranno il test di medicina”. Ma davvero la scuola è questo? Prestazione, prestazione, prestazione? Certo, la società spesso misura tutto: il PIL, i follower, il reddito, le scuole stesse attraverso le prestazioni accademiche degli studenti nelle classifiche di Eduscopio. Io credo però che la scuola debba essere palestra di felicità, prima che ossessione per la prestazione. La felicità viene prima e va oltre gli aridi numeri. Se la mia materia non tocca concretamente la vita dei miei studenti, se non accende interesse, se non apre domande, se non procura almeno un po’ di piacere, se non lascia intravedere una bellezza è semplicemente inutile, morta e sepolta. La scuola non è solo una istituzione che insegna contenuti, deve ambire a educare persone, ad accompagnare in un cammino. Una casa, dunque, non un laboratorio di selezione della specie. In una casa si rispettano le regole, si è esigenti, ognuno è chiamato a dare il meglio di sé, ognuno deve impegnarsi al massimo per migliorare e portare il proprio contributo. Ma in una casa ci sono amore ed empatia, in un laboratorio asettico solo strumenti sterili e freddezza.
La terza domanda è per i miei studenti: voi agite seguendo i principi in modo assoluto o provando ad essere responsabili? Chi agisce seguendo i principi assoluti, quando vede una realtà che non gli piace, la rifiuta, se ne tira fuori e la contesta. È un atteggiamento legittimo, ma non può durare per sempre. Nessuna realtà umana infatti è come dovrebbe essere: le istituzioni, le situazioni, la scuola, le persone stesse, il mondo intero sono ciò che sono. Sembra banale, ma vale la pena accettarlo davvero: nulla nella storia è mai stato come dovrebbe essere. Le età dell’oro esistono solo nei vagheggiamenti utopistici. La realtà, anche quella della scuola, si può rifiutare in toto perché ingiusta, oppure si può abitare con amore, portando la propria testimonianza con uno stile diverso, cambiando le cose a poco a poco, nella fatica di ogni giorno. Questo è lo stile della responsabilità, di chi si fa carico degli altri.
Penso a una classe particolarmente competitiva e attenta ai voti, nella quale si respirava un clima malsano di confronto senza tregua. Due compagne, che ottenevano voti altissimi ma non condividevano questo spirito, reagirono. Come? Fermandosi spesso al pomeriggio a scuola ad aiutare chi era più in difficoltà. Accettando di studiare meno per sé e più con gli altri. Esultando di più per la sufficienza di un compagno in difficoltà che per aver primeggiato in una verifica. Questa loro forma di quotidiana protesta mi colpì e mi commosse. Non avevano rinunciato ai loro principi, li avevano trasformati in responsabilità, cioè in cura per l’altro concreto, l’altro che cammina con te.
Marco Erba
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