Tasse “fluide” contro l’evasione fiscale

Gli italiani e le tasse: un rapporto ostico, come sembrano confermare alcune cifre riportate ad esempio da Il Corriere della Sera in cui si legge che il 60% di italiani evade le imposte. Va subito chiarito che non esistono fonti scientifiche che possano corroborare tale valore. Infatti, la fonte di informazione ufficiale sull’evasione fiscale in Italia è l’apposita Relazione sull’economia non osservata, predisposta da una commissione del Ministero dell’economia e delle finanze, che riporta una stima della quantità di evasione, cosiddetto tax gap, per le imposte principali, ma non il numero di contribuenti che evadono.
Un’altra premessa va fatta per capire quali sono le conseguenze per la società quando parliamo di tasse: l’evasione fiscale riduce le possibilità che ha la pubblica amministrazione di intervenire attraverso la fornitura di beni e servizi pubblici, come l’istruzione, la sanità e l’assistenza sociale. In questo modo, funzioni sociali fondamentali come quelle di formazione, cura e tutela del reddito rimangono affidate quasi esclusivamente ai meccanismi di mercato, e si ampliano le diseguaglianze economiche e sociali già crescenti. Inoltre si riduce l’efficienza del sistema fiscale e la sua equità, quella orizzontale (due individui che hanno la stessa capacità contributiva dovrebbero pagare il medesimo ammontare di imposte) ma anche il principio costituzionale della progressività, secondo cui la quota di reddito destinata al pagamento delle imposte dovrebbe crescere al crescere del reddito. Invece, diverse ricerche empiriche dimostrano che le possibilità di evasione tendono ad essere maggiori per i più ricchi, che possono più facilmente ricorrere a consulenti e schemi di pianificazione fiscale.
Non vi sono dubbi sul fatto che l’evasione fiscale in Italia sia un fenomeno di dimensioni rilevanti e che affligge il nostro Paese da decenni. Secondo gli ultimi dati pubblicati nella citata Relazione, nel 2021 (anno a cui si riferisce l’ultima disponibile, pubblicata nel 2024) i lavoratori autonomi e gli imprenditori individuali, che in buona parte autodichiarano il proprio reddito, evadono circa i 2/3 dell’Irpef dovuta. Questa quota è rimasta sostanzialmente inalterata nei decenni, perché è identica a quella che veniva stimata negli anni Novanta da fonti accademiche. Si tratta di una delle quote più elevate che si registrano al mondo, maggiore di quella che questo tipo di contribuenti fanno registrare in altri Paesi, e sicuramente superiore a quella dei lavoratori dipendenti e pensionati il cui reddito è dichiarato dai datori di lavoro (in Italia l’evasione stimata per i lavoratori dipendenti e i pensionati è inferiore al 5% dell’imposta potenziale).
Le cause di questo fenomeno sono molteplici. Evadere è relativamente semplice e poco costoso per le attività economiche con basso livello di organizzazione e pochi o nessun dipendente. In questi casi l’evasione viene gestita individualmente o nell’ambito di un’organizzazione familiare, che consente di alterare la contabilità d’impresa e i flussi di reddito senza correre troppi rischi. Inoltre, in Italia le sanzioni sono teoricamente abbastanza alte, ma c’è sempre la possibilità di un condono e la probabilità di subire un controllo è fisiologicamente bassa (come accade in tutti i sistemi fiscali di massa). Certo, i livelli elevati delle aliquote contribuiscono all’evasione, ma è sbagliato pensare che questa sia la principale causa, visto che in Italia le imposte si sono evase tanto anche in periodi storici in cui la pressione fiscale era ben inferiore quella attuale, ed è soprattutto illusorio sperare che la riduzione delle aliquote possa avere effetti benefici per le casse dello Stato. La letteratura economica suggerisce che una riduzione generalizzata delle aliquote può comportare un aumento del reddito dichiarato ma non in misura sufficiente a compensare la perdita di gettito originaria.
E allora, che fare? Al di là delle periodiche campagne di stampa che cercano di aumentare la cosiddetta moralità fiscale, o tax morale, dei contribuenti italiani, evidenziando le conseguenze negative che derivano dall’evasione fiscale, la letteratura recente ha documentato la prevalente importanza della probabilità di essere controllati. Quanto più il potenziale evasore ha la percezione dell’aumento del rischio all’aumentare del suo grado di evasione, tanto minore è la sua scelta ottimale di evasione.
Un esempio lampante ci viene dalla recente evoluzione dell’evasione dell’Iva. Fino a pochi anni fa, poco meno del 30% del gettito dell’Iva veniva evaso. Secondo gli ultimi dati, invece, nell’arco degli ultimi 5-10 anni l’evasione dell’Iva si è praticamente dimezzata in Italia, seppure rimanga notevolmente più alta rispetto a quella degli altri Paesi europei. Tra i fattori che hanno contribuito a questa riduzione vi sono alcune riforme, come l’introduzione della fatturazione elettronica e della trasmissione telematica dei corrispettivi, che hanno sostituito rispettivamente le fatture e gli scontrini cartacei, dando la possibilità all’Agenzia delle entrate di conoscere in tempo reale le operazioni svolte dagli operatori economici. A queste riforme si è aggiunta la disponibilità, per l’amministrazione fiscale, di avere contezza dell’ammontare delle operazioni pagate con moneta elettronica (bancomat e carte di credito) presso gli stessi operatori. Sebbene il numero di controlli effettivamente portati a termine incrociando questi dati sia naturalmente limitato, la semplice percezione di una possibilità maggiore di questo incrocio ha contribuito, insieme ad altri elementi, alla forte riduzione dell’evasione dell’Iva nel nostro Paese.
La probabilità percepita di essere controllati dipende strettamente non solo dalla qualità e quantità delle informazioni in possesso dell’amministrazione fiscale, ma anche dal modo in cui queste informazioni sono integrate nei processi ordinari di gestione delle attività economiche. È questo il concetto che nella letteratura internazionale viene definito seamless taxation o tassazione fluida. Secondo l’OCSE, la seamless taxation rappresenta una visione della trasformazione digitale delle amministrazioni fiscali, in cui il processo di tassazione diventa sempre più fluido e privo di attriti. L’obiettivo è integrare i meccanismi fiscali nei sistemi naturali dei contribuenti, riducendo gli oneri burocratici e migliorando l’equità del sistema. In altri termini, la dichiarazione fiscale non dovrebbe più essere un atto separato dalla normale gestione dell’impresa.
Questa integrazione tra gestione economica e gestione fiscale è più semplice per le attività economiche maggiormente strutturate rispetto a quelle di minore dimensione, ed è proprio questo aspetto ad essere presumibilmente rilevante per il nostro Paese. Il fatto che l’evasione dell’Irpef dei lavoratori autonomi e degli imprenditori individuali non sia diminuita, quando invece si è ridotta quella complessiva dell’Iva, dipende presumibilmente dal fatto che questo tipo di contribuenti continuano a gestire separatamente la propria contabilità economica da quella fiscale, ricorrendo a processi ancora poco digitalizzati e molto “manuali”.
In conclusione, l’esperienza degli ultimi anni nel nostro e negli altri paesi suggerisce che il problema dell’evasione fiscale è dovuto soprattutto alla struttura del nostro modello produttivo. La presenza di molte attività economiche poco strutturate, con un basso livello di organizzazione e spesso condotte a livello familiare costituisce un terreno ideale per il proliferare dell’evasione. Ne segue che questo modello andrebbe radicalmente ripensato, favorendo la crescita dimensionale e l’evoluzione organizzativa delle attività economiche in modo da ridurre la propensione all’evasione in Italia ai livelli osservati negli altri paesi europei.
Alessandro Santoro
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