Il mysterium iniquitatis secondo Graham Greene

Leggendo qualcuno dei libri “seri” mi venne fatto una volta di paragonare il suo percorso a quello del nostro Manzoni, insoddisfatto della cultura illuminista da cui veniva e bisognoso di risposte più profonde alle sue interrogazioni sui “perché”. In definitiva: perché esistono il bene e il male (il mysterium iniquitatis)? E più in profondità e più in generale: chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? Le contraddizioni dell’uomo dentro la natura, la società, la storia. Quella “storia” che la nostra Morante definì «uno scandalo che dura da diecimila anni». (Mi sono chiesto se Greene avesse letto La storia, di cui certamente sentì parlare, e credo che le sue reazioni non sarebbero state diverse da quelle del cattolico tedesco Heinrich Böll, che La storia lesse e apprezzò.) Ma le ragioni più profonde per amare Greene al punto di averne letto quasi tutte le opere (che in Italia da anni l’editore Sellerio sta ripubblicando), furono le stesse per cui ho amato i romanzi di Georges Simenon – anche nella sua opera divisi tra romanzi “seri” e romanzi “di genere” – e visto quasi tutti, o forse tutti i film che hanno “girato” alcuni registi cinematografi ci: Fritz Lang, Alfred Hitchcock, Luis Buñuel e soprattutto Robert Bresson, nei quali, come in Simenon e Bresson, non era davvero difficile trovare l’eco delle inquietudini dostoevskiane. In Buñuel agiva una radicata formazione cattolica (si pensi a Nazarin, si pensi a La via lattea...) alla quale si era ribellato al tempo dei surrealisti ma a cui concederà nei film messicani, e negli ultimi. La formazione di Lang, che era ebreo, avvenne nella cattolica Vienna, e fu decisamente cattolica. Il suo tema prediletto e talora ossessivo, presente anche in poveri film di genere, western o polizieschi, fu lo stesso affrontato tanto prima di lui da Schiller e Kleist, del buono che si fa ferocemente o freddamente cattivo in seguito a una ingiustizia subita (e sappiamo dalle storie di tanti rivoluzionari che le loro scelte vennero sia da esperienze dirette dell’ingiustizia che dall’aver visto l’ingiustizia subita da altri). Spiegare Bresson è più facile, pensando alla tradizione giansenista e al pensiero cattolico francese degli anni della sua formazione, a Bernanos come a Maritain. Collegare tra loro questi autori non è affatto difficile e non è affatto forzato. In sostanza: alla base delle domande sulla presenza del male nella vita di tutti e nella storia, c’è una inquietudine che gli autori citati – tutti cattolici o di area cattolica – non hanno mai smesso di provare, e che in Greene come in Lang e Simenon e Hitchcock si è servita, per esprimersi, delle convenzioni del romanzo “giallo” e di spionaggio. Non stupisce che essi siano stati dichiaratamente cattolici o influenzati nel profondo dalla morale cattolica, stupisce che così di rado i loro critici e analisti si siano soffermati sulle loro radici.
Greene, allora, che in Il potere e la gloria ha raccontato la fuga e la miseria di un prete in quella parte del Messico travolta al tempo della rivoluzione dalla cosiddetta “guerra cristera”, un prete peccatore che, tra l’altro, ha messo incinta una india e che nasconde la sua fede per sopravvivere, ma che – di fronte alla richiesta degli umili peones, che scoprono che egli è un prete, di benedirli, di battezzare i loro figli, di sposarli, di confessarli, di seppellirli rispettando i riti – finisce per accettare il suo destino. Il suo ruolo nel mondo e la sua prima vocazione...
In un aureo libretto di memorie Greene ha raccontato che, trovandosi sulla Costa Azzurra dove andava a svernare, fu invitato da amici in una villa di cui era ospite di passaggio il cardinale Montini, da Milano. Quando gli presentarono Greene egli esultò, dicendogli che il suo Il potere e la gloria era per lui un libro straordinario e importante, al che Greene, sorpreso, gli disse: «Ma lo sa, che quel libro è all’indice?» E Montini: «Ma lei che è cattolico bada ancora a queste cose?». Cito a memoria, ma uno dei primi gesti del papato di Montini fu l’abolizione dell’indice dei libri proibiti.
Dei sacramenti cattolici che Greene ben conosceva, egli sembra aver presente soprattutto quello della confessione dei propri peccati, ma non si direbbe che abbia tenuto molto in conto quello del “non desiderare la donna d’altri”, e fu questo, si dice in un libro sui retroscena delle scelte del consesso dottorale che decide a chi assegnare il Nobel per la letteratura. Pochi lo meritavano quanto lui (e quanto Borges, che all’ennesima delusione disse, raccontato dalla moglie argentina di Italo Calvino, «Questa di non darmi il Nobel è una antica tradizione scandinava»), e se non lo ebbe fu per l’opposizione di un membro molto importante della giuria che non perdonò mai a Greene di avere avuto un flirt con sua moglie, e siamo sempre sulla Costa Azzurra, un’attrice bella e brava, Anita Björk.
Dunque: romanzi molto seri, di taglio psicologico e introverso, per parlare in fondo di sé, per spiegare ai lettori i suoi dilemmi, la sua natura, le sue scelte. Sono, i più noti e più belli: Il nocciolo della questione, Fine di una storia, Un campo di battaglia, e altri ancora, compresi quelli dichiaratamente autobiografici o, diciamo così, di pubblica confessione... Ma su di essi la vincono per numero e per successo i “divertimenti” o spy stories, e cioè i “gialli di spionaggio”, tra i quali i suoi capolavori, dal Treno di Istanbul, un romanzo giovanile che rivaleggia con i divertimenti gialli di Agatha Christie con o senza l’investigatore Poirot, a Il terzo uomo (nato come sceneggiatura, alla pari del bellissimo Idolo infranto, entrambi per la regia di Carol Reed, il secondo che ha a protagonista un bambino, e va ricordato che Greene ha scritto anche fiabe e racconti destinati a un pubblico infantile...), Agente confidenziale, Il nostro agente all’Avana, Il fattore umano, I naufraghi (titolo originale England made me), Quinta colonna, Un americano tranquillo (che svela le mire statunitensi che preparano la guerra del Vietnam), I commedianti, In viaggio con la zia, Il console onorario e tra gli ultimissimi Il dottor Fisher a Ginevra. Ma ne dimentico certamente molti. E dovrei anche ricordare i libri per bambini, storie di macchine, di trasporti. Da quasi tutti è stato tratto un film, a Hollywood o a Londra. Come, tra gli autori suoi contemporanei, è accaduto soltanto a Simenon. (Una curiosità: si sono mai conosciuti, questi due giganti, questi due rivali? Certamente si sono letti e sapevano bene l’uno dell’altro... ed è curioso che anche l’opera del belga si divida tra divertimenti – la serie dei Maigret! Ma Greene non ha voluto inventare un personaggio che passasse di storia in storia – e ha sempre cercato eroi o piuttosto anti-eroi, adeguati ai tempi e agli ambienti affrontati).
Nei romanzi di Simenon e di Greene, i buoni non si distinguono mai troppo dai cattivi, si somigliano, ma hanno seguito strade diverse, un po’ per caso e molto per convinzione... Ed era Lang a teorizzare che una base narrativa tra le più forti è pur sempre quella del caso, once off guard, quando non si sta più in guardia rispetto a ciò che ci circonda, a ciò che ci capita. E non va dimenticato che contemporanei di Greene sono due scrittori che rivaleggiarono con lui nel girare il mondo e raccontarne le ambasce, scoprire quel che c’è dietro la scena, dietro l’apparente. Due altri grandi scrittori inglesi che, come lui, qualcosa hanno imparato anche dallo Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle – la letteratura for the millions, come il cinema che si teorizzava e si faceva a Hollywood – sono, non troppo distanti, W. Somerset Maugham, inquieto viaggiatore ma anche autore di un grande libro di spionaggio che ha insegnato a tanti e il cui capolavoro “poliziesco” è Agente segreto (e anche lui è stato “una spia”), ed Eric Ambler, che ci ha introdotto ai misteri politico-sociali del Vicino Oriente meglio di ogni giornalista e di ogni politologo (si cominci da La maschera di Dimitrios, da Epitaffi o per una spia...). Per capire la storia del romanzo di spionaggio è utile, oggi credo introvabile, una antologia garzantiana di storie di spionaggio da lui curata.
Per capire Greene, è certamente opportuno leggere i suoi scritti “teorici” o, diciamo così, confessionali, relativamente confessionali... mentre per capire la storia del Novecento è certamente opportuno leggere i suoi romanzi di spionaggio, che appaiono oggi come vere e proprie lezioni sulla storia del Novecento. Ma quelli più convincenti o più conturbanti raccontano la difficoltà delle scelte, da che parte stare. Non soltanto politicamente, è ovvio. Un grande pregio di Greene è stato infine questo: raccontare benissimo le forze – palesi e nascoste – in campo nella storia del Novecento, del mondo del Novecento, attraverso personaggi sempre profondamente umani, nel bene e nel male e nell’incerto, pur sempre cosciente dei limiti dell’umano, della condizione umana. I buoni come i cattivi si muovono, sempre, su un filo di rasoio, ma alcuni sono “salvati” dalla loro capacità di intuire, in ogni caso, che la distanza tra bene e male è sempre sottile, per i “buoni” come per i “cattivi”. Nella storia del Novecento, Greene ci ha aiutato a capire le difficoltà dei buoni, che sanno di non essere mai buoni del tutto, e il mortale fascino dei cattivi; e le forze in campo su vasta scala – e il gioco degli interessi e delle menzogne. Ci ha aiutato a capire i limiti dell’umano, e questo spiega la matrice etica e religiosa della sua visione.
(photo credit )
Goffredo Fofi
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