Lupo: Elogio della "terza via" per rilanciare la cultura politica

Pubblicato in Italia per i tipi Rusconi, nel 1974, La cultura tradita dagli intellettuali di Jean Daniélou prendeva avvio da un paio di domande a cui, con un po’ di buon senso, non sarebbe stato difficile attribuire risposte: «L’intelligenza ha dei doveri? Gli intellettuali hanno responsabilità?». Era implicito quel che volesse intendere Daniélou. Meno chiare, invece, erano le ragioni per cui nel titolo del suo pamphlet tornava il termine che era già stato utilizzato da Julien Benda in un fortunatissimo saggio di una cinquantina d’anni prima, La trahison des clercs (1927), un vero e proprio libro-paradigma della condizione intellettuale nella prima parte del secolo. A porre distanza tra le sensibilità dei due autori non intervenivano soltanto i fatti del Novecento, compresi l’esperienza del totalitarismo, lo spartiacque della guerra e la ricostruzione. E nemmeno pesava l’appartenenza di Benda alle file di un cattolicesimo d’impronta più tradizionale rispetto all’apertura verso la modernità che Daniélou, cardinale e accademico di Francia, esprimeva, oltre che con questo suo libro, anche con il precedente Saggio sul mistero della Storia (1953).
A frapporsi era essenzialmente il significato che andava attribuito alla nozione di tradimento: una forma di disubbidienza alla vocazione e per lo studio (secondo Benda), un venir meno alle proprie responsabilità morali (secondo Daniélou). Per il primo, gli intellettuali tradivano quando si interessavano alla politica, rinunciando in questo modo a occuparsi esclusivamente dei propri studi. Per il secondo valeva il contrario: non riconoscendo più il ruolo centrale della cultura umanistica nei confronti delle scienze positive, non opponevano alcuna resistenza alla deriva che riduceva l’autorevolezza del versante umanistico nel panorama dei saperi. L’errore stava, in altre parole, nel processo di autoderesponsabilizzazione dal compito di farsi promotori delle scienze umane ed è chiaro che il punto di partenza del suo ragionamento stava ancora nella distinzione delle “due culture”, un tema che all’epoca della pubblicazione del libro non era ancora del tutto superato. Ma c’era ancora un ulteriore elemento a differenziare le analisi di Benda e di Daniélou: uno invocava a testimone il comportamento di Émile Zola nell’affaire Dreyfuss (riprovevole, a suo modo di vedere), l’altro si faceva scudo del Credo del popolo di Dio, redatto da Paolo VI nel giugno del 1968, un documento che invitava gli intellettuali cristiani a riguadagnare il terreno perso nei confronti delle scienze positive.
Al di là delle discrepanze fin qui elencate, entrambi i libri soffiavano sul fuoco di un argomento che nel secolo scorso sarebbe diventato cruciale – il ruolo degli intellettuali nell’avvento della modernità – e ribadivano l’urgenza di non poter più pensare al Novecento senza considerare il raggio d’azione che i depositari della cultura secondo una certa tradizione, gli intellettuali appunto, avrebbero occupato.
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