Addio a Gomorra, la migliore serie italiana del decennio. 10 ragioni per spiegarne la qualità

Si è conclusa poco prima di Natale, con una puntata tesissima ed emozionante, ricca di svolte narrative inattese, e con un finale spettacolare e tetro, l’ultima e definitiva stagione di Gomorra, la serie liberamente costruita a partire dall’originario romanzo di Roberto Saviano (di cui conserva il titolo).
Si è conclusa dopo sei stagioni, 58 episodi (e un film spin-off, ovvero derivato dalla serie, L’Immortale), e lo ha fatto all’insegna della circolarità (da ora in poi si faranno riferimenti alla storia fino alla sua ultima stagione: si deve dunque al lettore l’allerta nel caso non volesse anticipazioni): il cerchio si chiude a Scampia, i protagonisti tornano, nella puntata conclusiva, in diversi luoghi che abbiamo imparato a conoscere – in un tour nell’inferno della criminalità e del Male – fin dalla prima stagione. Rieccoci per esempio alle “vele”, il degradato complesso residenziale diventato icona dell’universo di Gomorra, fin dalle prime immagini del film di Matteo Garrone, nel 2008.
Il racconto di Gomorra si chiude, dunque, là dove era cominciato: nulla più della circolarità della narrazione può dare il senso della tragedia che si compie inesorabilmente, del procedere ineluttabile dei protagonisti – Gennaro “Genny” Savastano e Ciro “l’immortale” Di Marzio, interpretati splendidamente, per sette anni, da Salvatore Esposito e Marco D’Amore – lungo il percorso che il destino, come la forza cieca e misteriosa di un Fato che incombe sulle loro spalle, ha preparato dall’inizio per loro. Come nella migliore tradizione tragica, il compimento coincide con la morte (e con la fine), senza che vi sia uno spiraglio di redenzione. Tutto è ciò che deve essere, nonostante i tentativi vani e sporadici di entrambi i protagonisti di sottrarsi al giogo del Male e della violenza, per l’uno insito nel sangue (quello del clan dei Savastano), per l’altro nel carattere e nella brama di potere.
Anche alla luce di questo magnifico e lugubre finale (letteralmente: tutto oscuro, girato in piena notte), possiamo affermarlo con sicurezza: Gomorra è la migliore serie italiana del decennio, come per altro è stato variamente riconosciuto, anche in contesto internazionale. Alla fine di questo percorso iniziato nel maggio del 2014, con le prime immagini della serie trasmesse su Sky Atlantic, possiamo provare a tirare le somme, e tentare di spiegare perché il drama prodotto dalla pay tv sia il prodotto di fiction nazionale più importante degli anni Duemila.
10 RAGIONI
1. Non una serie, un universo. Una serie non è un semplice racconto. È, nei casi più riusciti (soprattutto americani), un “intero mondo ammobiliato” (Umberto Eco), un universo narrativo da esplorare come dei viaggiatori o dei geografi. Gomorra ci ha portato in tour all’inferno, dove non ci sono eroi ma solo “sympathetic perpetrators” (anti-eroi capaci di generare empatia, potremmo tradurre), come ha scritto Dana Renga (Watching Sympathetic Perpatrators in Italian TV, Palgrave Macmillan, 2019).
2. Spazi e immaginari. Gomorra è forse una delle poche serie italiane che, alla luce della sua attitudine a “costruire un mondo”, è anche in grado di edificare un immaginario. Lo fa grazie alla descrizione degli ambienti, degli esterni degradati (come le citate “vele”) così come degli interni ultra-kitsch dei camorristi (tutti ricordiamo la casa di Imma e Pietro Savastano, coi loro regali ritratti fra ori e stucchi). Spazi domestici e codici del vestiario che resteranno per sempre a descrivere l’immaginario malavitoso e camorristico.
3. “Maturità transmediale”. Gomorra è la serie italiana che ha avviato un percorso “transmediale” convincente: ha chiuso una stagione e esplorato una strada separata grazie a un film (L’immortale, 2019), che poi ha fatto da premessa alla stagione finale. Un racconto espanso oltre il confine dei singoli media.
4. Il prodotto più internazionale. Gomorra ha viaggiato benissimo all’estero, incarnando la “nuova serialità italiana di qualità”, incrociando pubblici a latitudini diverse del mondo. Lo ha fatto perché si è data un codice di racconto universale, per quanto locale possa essere la camorra (che, per altro, è decisamente più g/locale, come la serie stessa ha raccontato).
5. Lo stile visivo e della regia. Facendo tesoro della lezione di Romanzo criminale, la prima serie di qualità della pay tv, Gomorra ha dettato una regola industriale: lo stile visivo e la cura della regia (e della fotografia) vanno oltre l’individualità del singolo regista. L’impostazione iniziale è stata data da Stefano Sollima, hanno proseguito il lavoro, con coerenza, soprattutto Claudio Cupellini e lo stesso Marco D’Amore.
6. Personaggi & interpreti. Come dimenticare donna Imma Savastano? O Scianel? E che dire di don Salvatore Conte? E di lì, via via, lungo le stagioni, fino ad arrivare a Nunzia Carignano, vedova di O’ Galantommo, uno dei personaggi più riusciti della stagione finale, un’altra “donna di camorra” accecata dal desiderio di vendetta. Uomini e donne di mafia, insomma, entrati nell’immaginario, insieme ai loro incredibili interpreti (se gli attori italiani fossero sempre a questo livello…).
7. L’anatomia del male. Gomorra è una serie fatta di anti-eroi: questa è la premessa necessaria. È in linea con la parte più entusiasmante della serialità di qualità americana (da I Soprano in poi). Ci si è lamentati che manchi il bene, ma il giudizio morale – se non rappresentato esplicitamente – sta nello sguardo di chi guarda.
8. Gli effetti di Gomorra sulla gente. Gomorra genera fandom, comunità di appassionati. Dicono gli allarmati che generi anche emulazione. Ma il consumo di Gomorra ha prodotto per lo più parodie (in primis nel lavoro dei The Jackal su YouTube). Segno della popolarità del racconto, non certo di adesione alla visione dei personaggi, che vivono nell’immaginario.
9. La forza della comunicazione. Gomorra è il prodotto più riuscito di Sky Italia. Porta al culmine l’attitudine a realizzare serie “altamente comunicative”: ne parla davanti a un caffè chi l’ha vista ma anche chi non l’ha ancora fatto, e si innesca così un senso di “esclusività”, il bene più prezioso per una tv a pagamento.
10. Fra realismo ed epica. Ma qual è il segreto ultimo del successo e del valore di Gomorra? La serie scritta da Stefano Bises, Leonardo Fasoli, Ludovica Rampoldi e altri traduce il realismo in epica e l’epica in realismo. Molti episodi traggono spunto dalle agghiaccianti cronache della criminalità organizzata, ma la scrittura porta tutto a un livello superiore e diverso: non si tratta solo di documentare una realtà, ma di farci appassionare alle sue dinamiche, alla guerra dei re della criminalità, fra successioni, tradimenti, violenza, desiderio di vendetta, sete di potere. Sessanta ore passate all’inferno, in una tragedia in cui sembra impossibile sottrarsi al Male, finendo per essere carnefici o vittime. O, spesso, entrambe le cose.
Massimo Scaglioni
Su VP Plus, il quindicinale online della rivista Vita e Pensiero, ha pubblicato gli articoli Aspettando gli Oscar 2020, Sanremo decostruito (da Sanremo), Nuovo Cinema Netflix, La religione (e l'Italia) come "brand".
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