Benson: il futuro senza politica

Insieme con I promessi sposi di Alessandro Manzoni, Il padrone del mondo di Robert Hugh Benson è uno dei romanzi più amati e citati da papa Francesco, che durante il suo intervento al G7 nel giugno scorso ne ha raccomandato la lettura ai leader internazionali. Con una motivazione particolarmente interessante: la mediazione della politica, ha osservato il Pontefice, è l’unico strumento che permette di resistere alla «tentazione di uniformare tutto». Da qui il richiamo al Padrone del mondo, nel quale viene descritto – sono ancora parole di Francesco – «il futuro senza politica», ossia pacificato in superficie e consegnato alla dittatura nel profondo. Di solito, il capolavoro di Benson viene elogiato per altre ragioni, che coincidono da ultimo con l’immagine un po’ compiaciuta di una Chiesa dapprima blandita e infine perseguitata. Non che non sia anche questa la storia raccontata nel Padrone del mondo, robusta distopia che da un lato recepisce la lezione di Gilbert Keith Chesterton (il libro esce nel 1907, quasi contemporaneamente a L’uomo che fu Giovedì) e dall’altro sembra anticipare il quadro poi allestito da George Orwell nel celeberrimo 1984. Un romanzo, però, è sempre più della sua trama, specie quando in quella stessa trama si rispecchia la biografia dell’autore.
A 110 anni dalla morte di Benson, avvenuta il 19 ottobre 1914 (nato il 18 novembre 1871, lo scrittore aveva solo 42 anni), vale la pena di tornare su una vicenda per molti aspetti emblematica. Robert Hugh era l’ultimogenito dell’arcivescovo di Canterbury, Edward White Benson, dalle cui mani aveva ricevuto nel 1895 l’ordinazione sacerdotale nella Chiesa anglicana. A dispetto della forte tradizione di famiglia, il giovane Benson aveva iniziato abbastanza presto a nutrire perplessità e riserve, alimentate anche dai lunghi soggiorni all’estero, durante i quali – come successivamente ricordato nelle autobiografiche Confessioni di un convertito – aveva avuto modo di constatare la sostanziale marginalità della Chiesa d’Inghilterra. A preoccuparlo non era tanto lo scarso numero di fedeli anglicani su scala mondiale, quanto la prospettiva teologica di una confessione nazionale, insidiata al suo interno da continue tensioni e incapace di concepire un annuncio di salvezza autenticamente universale. Volendo azzardare un gioco di parole, Benson fu attratto dal cattolicesimo per la mancanza di cattolicità dell’anglicanesimo.
Dal punto di vista formale, la conversione fu perfezionata nel 1904. Nel momento in cui entrava nel presbiterato cattolico, Benson era consapevole di ricalcare le orme del cardinale John Henry Newman, al quale lo accomunava anche la passione per la letteratura. Ma se l’autore dell’Apologia pro vita sua era stato un ragguardevole poeta, Benson si sentiva appunto un romanziere. Molte delle sue numerose opere sono ambientate all’epoca dello Scisma inglese o nella contemporaneità; Il padrone del mondo rimane però il titolo più conosciuto. Mettendo a frutto una vasta conoscenza biblica (per sua stessa ammissione, lo studio della Scrittura era uno dei portati più significativi dell’educazione anglicana), Benson inscena una versione moderna dell’Apocalisse, al centro della quale si staglia l’ambigua figura di Julian Felsenburgh, carismatico promotore di un universalismo pacifista che mortifica in parodia la predicazione della Chiesa di Roma. Non a caso, il Papa rappresenta l’unico oppositore di un totalitarismo che si impone con astuzia melliflua, facendo appello a un generico filantropismo privo di qualsiasi implicazione spirituale: è un’interessata ipocrisia, che uniforma tutto e non rispetta nulla.
Il romanzo riprende nel dettaglio personaggi e situazioni della visione di Giovanni. L’anticristo Felsenburgh rivela, per esempio, un’impressionante somiglianza con Percy Franklin, il combattivo sacerdote destinato a salire al soglio di Pietro con il nome di Silvestro III dopo che il Vaticano è stato raso al suolo da un bombardamento. In un certo senso, è come se nel Padrone del mondo gli affreschi di Luca Signorelli per il Duomo di Orvieto venissero rivisitati sulla scorta dell’immaginario fantascientifico di un H.G. Wells. Il finale è già scritto, ma proprio per questo – prima che il nostro mondo, con tutta la sua gloria, sia spazzato via dalla divina tempesta – c’è bisogno della politica, che è l’arte di vivere insieme senza finzione, senza inganni.
Alessandro Zaccuri
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