Charles Péguy e la cultura italiana

Charles Péguy e la cultura italiana

28.01.2023
di Giuliano Vigini

Ricordare Péguy a 150 anni dalla nascita (7 gennaio 1873) non è la rivisitazione nostalgica di una figura che in passato molti intellettuali italiani hanno letto, tradotto e amato, ma è il recupero di idealità e valori che hanno fatto parte della sua esperienza di vita e che anche oggi dovrebbero rivivere come un’eredità preziosa da cui attingere.

Non a caso egli è stato subito percepito,  nell’atmosfera stagnante della cultura italiana di fine Ottocento e dei primi anni del Novecento, come uno dei ponti capaci di traghettare, dal provincialismo del nostro orizzonte domestico, verso un mondo – come quello francese – fervido di novità, idee e battaglie. Più che per gli aspetti epidermici legati al «mito di Parigi», si guardava alla Francia per quel «salto vitale»  –  come lo chiamava Ardengo Soffici – che essa consentiva di compiere nel percorso della propria formazione estetica e letteraria. In realtà, se non per tutti, certo per molti scrittori, artisti e intellettuali italiani, Parigi, più che la meta di un viaggio in sé concluso, sarà la traccia o lo sbocco di nuovi destini. Non resterà un semplice miraggio della giovinezza evocato negli anni della maturità, ma una presenza rinnovatrice che continuerà ad alimentare la tensione ideale di tutta una generazione.

La figura di Péguy e i suoi «Cahiers de la Quinzaine» si inseriscono appunto in questo contesto. Collocandosi nel vivo delle esperienze artistiche e spirituali del suo tempo come una delle voci più genuine e profonde, Péguy era diventato ben presto un simbolo della coscienza letteraria europea, tesa in quegli anni a un rinnovamento non più soltanto estetico e formale, ma anche etico e religioso. In realtà, a una generazione smarrita che tentava con ostinazione di recuperare un'identità e una fede nell'avvenire, Péguy si imponeva – prima ancora che per la sua singolarità di poeta – per la sua statura di uomo che proponeva con forza e coerenza la visione di un mondo recuperato alle sue essenziali radici. Il rigore, la passione, la purezza del suo programma suscitavano un interesse che dalla letteratura si trasferiva alla vita come impegno di militanza morale e civile, venendo lo scrittore ad incarnare, non solo un diverso modo di fare letteratura, ma anche di porsi di fronte all'uomo, alla società e alla storia.

Inizialmente, nella prima stagione della fortuna di Péguy in Italia – stagione feconda, suscitatrice dei fermenti più vivi anche per altri autori d'ispirazione cattolica, come Paul Claudel e Léon Bloy –, lo scrittore poteva apparire più che altro – come mi scriveva Giuseppe Prezzolini (26 settembre 1976) – una «strana figura» d'intellettuale isolato, si direbbe nato per smentire «la dottrina dell'origine degli scrittori da un ambiente, o da una classe, o da certi interessi». Ma intanto l'esperienza portata avanti da Péguy attraverso i «Cahiers» veniva raccolta dai giovani intellettuali legati alle riviste fiorentine e, in particolare, alla «Voce», i quali intravedevano nel lavoro poetico e culturale di Péguy un laboratorio di idee e principi capace di offrire forti stimoli al loro stesso impegno di ricerca e alla loro ansia di  cambiamento.

È soprattutto a Prezzolini –  per la quantità di articoli dedicati allo scrittore, ma anche per l'entusiasmo che in essi inizialmente trasfonde – che va il merito d'aver fatto conoscere Péguy nei primi decenni del Novecento. Già in uno scritto sulla filosofia bergsoniana del 6 gennaio 1910, Prezzolini accenna di passaggio a Péguy, definendolo «un uomo d'azione dei più tipici e simpatici» e, parlando tre mesi più tardi su «Il Commento» dei «Cahiers» e del loro programma di battaglia, sottolineerà la perseveranza e l'onestà con cui Péguy si dava tutto alla causa, abbandonando la muta famelica che si saziava al potere per continuare, «povero, severo, la sua milizia di cultura». I «Cahiers» sono visti come «scuola di carattere», «educatorio di energia» e vengono elevati a simbolo della Francia più nobile, sana e generosa, più convinta dei propri ideali storici e della propria missione nel mondo. Péguy si erge in tutta la  sua statura morale, come straripante uomo di fede e di vita che vuol contribuire al radicale rinnovamento della coscienza intellettuale europea e, più in generale, alla rigenerazione spirituale del suo tempo.

Da quel momento l’opera avrà presa su molti scrittori e intellettuali (Cardarelli tra i primi), concordi nel ritenere che il grande merito di Péguy come scrittore era di aver trasfigurato tutte le sue naturali tendenze in una religione della vita, di aver saputo sostituire il senso vago di una divinità fuggitiva, rappresentando carnalmente l'idea dell'Eterno. Si aggiungeranno via via altri autorevoli rappresentanti della cultura italiana del Novecento, come Borgese e Cecchi. Questi, all'indomani della morte di Péguy (1914), scriverà: «Péguy era essenzialmente un cristiano, un grande cristiano. Sembra di dir nulla. Tutti o quasi siamo stati battezzati. E ci chiamiamo cristiani. Ma Péguy è uno di quelli che danno necessità nuova alle cose, sotto le vecchie parole. Era cristiano perché l'atto logico del tempo si distruggeva per lui in un atto di intellettuale carità. Era cristiano per modo da identificare il mondo in una verticalità e compresenza calme e costanti. In tutto il mondo e in ogni punto, sentiva supremamente e carnalmente questo fatto: la vita del Cristo».

Con la morte di Péguy si spegne, anche per molti intellettuali italiani, una delle voci più alte e rappresentative della Francia contemporanea, ma le pagine dei suoi Misteri, di Eva o di  La nostra giovinezza hanno continuato per generazioni ad esercitare un’attrazione e un influsso. Perché, dopotutto, l’ammirazione per Péguy non poggia tanto su motivazioni letterarie, o esclusivamente letterarie, ma piuttosto su una consonanza intellettuale e morale di fondo, che va ben al di là di ogni pur legittimo dissenso o di qualche riserva sul piano estetico. Se è pur vero che l'esperienza culturale e organizzativa dei «Cahiers» si è presto esaurita, non solo per la scomparsa del protagonista con cui la rivista si era identificata, ma proprio perché già da qualche tempo essa andava inaridendosi e rinchiudendosi in sé stessa, in un proprio mondo lontano dai fermenti della storia, e quindi non più capace di coagulare intorno a sé le nuove generazioni, non per questo la sua lezione è venuta meno. Anzi, essa rimane intatta come testimonianza della fedeltà di Péguy ai propri ideali, esemplare fino alla fine.

Giuliano Vigini

Giuliano Vigini è noto come autore di saggi sull’editoria ed esperto di editoria (disciplina che insegna all’Università Cattolica di Milano) e mercato del libro. È membro di vari premi e comitati editoriali. Ha pubblicato anche numerose opere sulla letteratura cristiana antica, moderna e contemporanea. Collabora con giornali e riviste, tra cui il «Corriere della Sera», «Avvenire», «Famiglia cristiana» e «Vita e Pensiero».

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