Claudel in Italia nonostante Benedetto Croce

A settant’anni di distanza dalla morte (23 febbraio 1955), il nome di Claudel evoca la figura di un poeta e drammaturgo che si è stabilmente ritagliato un posto nella letteratura del Novecento, ma che appare ormai lontano dalla sensibilità di oggi, isolato nella sua stessa grandezza. Non ci si sottrae cioè all’impressione di correre su un doppio binario: da un lato, una schiera di studiosi che non si stancano di scavare nell’universo poetico e religioso di Claudel, ritrovandovi motivi d’interesse e approfondimento; dall’altro, un pubblico adulto, in prevalenza cattolico, che si è disabituato a leggerlo, senza peraltro che siano subentrate le nuove generazioni, che lo sentono già in partenza uno scrittore d’altri tempi, legato a una stagione letteraria e a un clima spirituale scomparsi, oppure troppo difficile, nella complessità del suo simbolismo cosmico o del suo linguaggio spesso barocco, per diventare appetibile ai palati più giovani.
La bibliografia delle trentacinque traduzioni di Claudel elencate nel mio Il Novecento letterario francese in Italia (1901-2000), per quanto attiene alla sola narrativa, alla poesia e al teatro, testimonia che dagli anni Dieci in poi – cominciando da Partage de midi tradotto da Piero Jahier (Firenze, Libreria della Voce, 1912) e oggi, con testo a fronte, nell’ottima edizione a cura di Simonetta Valenti (Milano, EDUCatt., 2006) e da L’échange, tradotto da Erminio Robecchi-Brivio (Milano, Facchi, 1919) – c’è per lo scrittore un’attenzione tutt’altro che occasionale. Certamente Jahier era stato il più scosso e influenzato dall’atmosfera dell’opera di Claudel, alla quale poteva già essere ben predisposto dalla sua stessa formazione religiosa (suo padre era un pastore valdese), avendo intravisto in lui l’armonico accordo tra il credente e il poeta, l’autenticità di una fede che lo poneva di fronte alla propria coscienza e lo coinvolgeva in un processo di conversione interiore, come appunto era avvenuto con Partage de midi.
Già prima del 1912 vari articoli si era soffermati sull’opera di Claudel, sia per sottolineare il suo grande empito lirico e la sua forza drammaturgica, sia per cogliervi il recupero dei valori autentici del cattolicesimo, peraltro all’interno di un groviglio di tensioni e dilemmi profondamente vissuti. Non c’era però unanimità di consensi e anche dopo la campagna caldeggiata da Jahier all’interno del gruppo della “Voce”, gli animi erano rimasti divisi e anzi si erano accese vivaci polemiche intorno al significato dell’opera di Claudel e alla natura del cosiddetto “claudellismo”. Così, al giudizio entusiastico di Jahier e alla posizione sostanzialmente neutrale di Prezzolini, probabilmente uno dei primi in Italia a leggere Claudel e in una prima fase anche a sostenerlo con convinzione – come era stato il primo a diffondere in Italia il nome di Péguy –, facevano da contrappeso le posizioni di Soffici e Papini: il primo per denunciare in Claudel l’artificiosità dello stile; il secondo per ritenerlo un rappresentante della nuova moda cattolicheggiante, orientata verso una risciacquatura poetica del cristianesimo. In questo clima, di lì a pochi anni (1918), arriverà anche la nota stroncatura di Claudel fatta da Benedetto Croce, paragonata da Emilio Cecchi a una “sentenza da Corte marziale”.
Nonostante i dissensi, a non pochi sacerdoti, letterati e uomini di cultura italiani Claudel offriva ampio materiale per riconoscersi nel travaglio e nello smarrimento esistenziale che la sua opera sapeva così vigorosamente interpretare e, in pari tempo, l’occasione per aprirsi a una dimensione nuova del vivere, sotto la spinta di una verità cristiana annunciata in tutta la sua pienezza di fede.
Portabandiera in Italia della sua conoscenza e della sua fortuna era stata la traduzione fatta da Francesco Casnati dell’Annonce faite à Marie (Milano, Vita e Pensiero, 1931), su cui in particolare si è recentemente soffermato anche il “Bulletin de la Société Paul Claudel” (Claudel et l’Italie, 2022, 2, n. 237). Lo stesso Casnati avrebbe poi contribuito alla diffusione dell’opera di Claudel, riprendendo con il titolo I drammi cristiani di Claudel (Milano, Vita e Pensiero, 1933) un saggio già pubblicato nel 1919.
Si può dire che, da quel momento, la fama di Claudel entri in una fase decisiva sul piano editoriale e si consolidi sul piano critico. Usciva tra l’altro nei primi anni Quaranta uno dei migliori saggi sull’autore che siano apparsi in Italia, La concezione della poesia in Paul Claudel di Francesco Olivero: opera pressoché sconosciuta ai più (fu stampata a Torino da Chiantore nel 1943 in soli 600 esemplari numerati) e sfuggita anche a chi scrive al momento di redigere la voce Claudel per il Dizionario critico della letteratura francese, diretto da Franco Simone(Torino, UTET, 1972, 2 voll.). Più tardi Ennio Francia darà un’interpretazione complessiva nel suo Paul Claudel (Brescia, Morcelliana, 1947) e, nello stesso anno, uscirà la traduzione di Sandro Penna di Présence et prophétie (Presenza e profezia, Milano, Edizioni di Comunità, 1959).
Negli anni Cinquanta, soprattutto dopo la morte dello scrittore, e per tutti gli anni Sessanta si consoliderà la grande stagione della critica claudelliana in Italia, come del resto anche in Francia, non ultimo per la pubblicazione nella “Bibliothèque de la Pléiade” delle opere poetiche e in prosa, del teatro e del Journal. Invece, dagli anni Settanta in poi, comincerà per Claudel una lenta ma costante parabola discendente, non perché manchino anche oggi in Italia alcune nuove traduzioni o ristampe di alcuni titoli noti (come L’annuncio a Maria) oppure saggi e interventi, come la biografia di Flaminia Morandi, Paul Claudel. Un amore folle per Dio (Milano, Paoline, 2018) o la raccolta di scritti di von Balthasar dal titolo L’eros redento, a cura di Danilo Zardin (Assisi, Cantagalli, 2021), ma appunto perché – come si notava in apertura – non c’è più un pubblico che lo legga.
Ecco perché il Convegno internazionale su Claudel organizzato a Roma nel 2005 dal card. Paul Poupard (con gli Atti pubblicati da Gremese nel 2008 per le cure di mons. Pasquale Iacobone), prendendo ormai atto della “scomparsa” o della marginalizzazione dell’opera di Claudel in Italia, recava come titolo Il gigante invisibile. Omaggio a uno scrittore che ha avuto molti rapporti con l’Italia e ha lasciato impronte letterarie che non si cancellano, ma di fatto caduto nell’oblio, come del resto è stato per molti scrittori cattolici francesi in auge soprattutto nel primo Novecento (Bloy, Péguy, Bernanos, Mauriac, Green, Cesbron, ecc.).
(photo credit Giogo)
Giuliano Vigini
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