La guerra contro la Repubblica Islamica

Quanto stava facendo l’Iran era l’accumulare grandi quantità di uranio arricchito al 60%; un livello di arricchimento che avrebbe permesso di produrre facilmente grandi quantità di uranio al 90%, utilizzabile a fini militari. Una scelta politica dettata dall’arroganza e dal tatticismo ambiguo che distingue il regime di Teheran, che si è rivelato anche un clamoroso errore di calcolo politico. Ma l’uranio arricchito da solo non rappresenta un ordigno nucleare, per il quale sono necessari componenti altamente tecnologici e, soprattutto la capacità di ridurre il peso di un ordigno nucleare per poterlo istallare sui missili balistici. Le agenzie di intelligence statunitensi stimavano che gli iraniani avessero bisogno di almeno due/tre anni.
La verità è che il primo ministro israeliano, Bibi Netanyahu voleva fortissimamente da anni attaccare il suo nemico par excellence: tagliare la testa del serpente, come diceva. Un desiderio frustrato dai ripetuti divieti delle passate amministrazioni statunitensi, ma reso possibile dalla concomitanza di due fattori: da un lato l’appoggio incondizionato dell’amministrazione Trump a ogni decisione del governo di ultra-destra di Tel Aviv; dall’altro, la considerazione che questo fosse il momento migliore. La reazione israeliana al 7 ottobre 2023 ha infatti completamente divelto il cosiddetto “ring of fire” costruito dall’Iran attorno allo stato ebraico: ha dapprima annichilito Hamas, certo a costo di distruggere completamente Gaza, massacrando impunemente decine di migliaia di donne e bambini palestinesi innocenti. Poi ha azzerato i vertici politici e militari di Hezbollah, privandolo quasi di ogni capacità militare. Caduta infine la Siria, l’Iran appariva debole e isolato come non mai.
E così Israele ha attaccato; un bombardamento pesantissimo non solo contro le istallazioni nucleari e del programma missilistico, ma che ha colpito il cuore stesso di Teheran, uccidendo quasi tutti i vertici militari iraniani e dei potentissimi pasdaran, oltre a diversi importanti scienziati nucleari, grazie anche alla penetrazione di agenti segreti e forze speciali nel paese nemico. Il regime islamico, dopo l’iniziale sorpresa sta reagendo con una forza maggiore di quanto sperato da Netanyahu, con un lancio di razzi che sono spesso riusciti a “bucare” il celebrato scudo anti-missile Iron Dome.
Apparentemente, Trump non voleva questa nuova guerra. In realtà, con il passare dei giorni, gli Stati Uniti hanno mostrato crescente sostegno alle operazioni militari israeliane, minacciando di intervenire direttamente nel conflitto se Teheran non si fosse arresa incondizionatamente. Una richiesta ovviamente rigettata da un regime indebolito e ferito dalla micidiale precisione dei colpi inferti da Tel Aviv, ma disposto a lottare fino alla fine. Anche perché appare chiaro che l’obiettivo sia quello di un regime change imposto con le armi e non già solo della distruzione del suo programma nucleare.
La caduta della Repubblica Islamica è da decenni il sogno neppure segreto della destra statunitense e di Israele. Mai realizzato, dato che l’Iran non è il fragile Iraq di Saddam Hussein e il regime islamista di Teheran è ben più radicato di quello della minoranza alawita in Siria, che si reggeva da più di un decennio solo sulle armi russe e iraniane. Non che il Nezam, il sistema di potere creatosi dopo la rivoluzione del 1978-9 sia popolare. Anzi: la maggior parte degli iraniani detesta la Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, odia i pasdaran e tutto ciò che riguarda il regime. Ma questa opposizione non si è finora tradotta nella formazione di veri movimenti politici organizzati che potessero sfidarlo. Né sono emerse leadership carismatiche attorno a cui polarizzare un progetto alternativo all’attuale sistema di potere.
Anzi, questo conflitto – tanto più se Trump deciderà di eliminare Khamenei – rischia di trasformare l’Iran da un sistema teocratico in una più classica dittatura militare: eliminare i capi dei pasdaran non significa impedir loro di reprimere proteste o insurrezioni, ma solo incattivirli. Esiste un blocco sociale fatto dai ceti più disagiati, che beneficiano del clientelismo del regime, così come da una nuova borghesia legata al Nezam, in cui soldi e affari si mischiano alla gestione del potere e degli strumenti repressivi. Il sogno del regime change rischia così, ancora una volta, di rimanere tale, trasformandosi in un incubo per la popolazione, schiacciata fra l’incudine del regime e il martello degli attacchi militari israeliani (e forse americani).
Riccardo Redaelli
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