La verità è breve. O no?

Ogni ricerca, si sa, è un contributo alla crescita di tutti più che una verità assoluta. Ma proprio perché servono a farci crescere, ci sono ricerche che non vanno ignorate.
Prendete la lotta alle fake news. Se ne parla da anni, al punto che anche sul termine, «fake news», ormai c’è una certa confusione (per alcuni anche un refuso o una critica sono ormai «fake news», mentre dovrebbero esserlo solo «le notizie create ad arte per screditare qualcuno»). Premesso che chiunque abbia in ogni modo contrastato qualunque «fake news» non solo ha fatto bene ma ha tutta la mia stima, c’è un aspetto di questa vicenda che rischiamo di avere dimenticato. Una delle ragioni è probabilmente legata al fatto che quando pensiamo agli altri li raffiguriamo prendendo spunto dalle persone che conosciamo. E così dimentichiamo che una fetta sempre più grande della popolazione digitale non è come la immaginiamo, non solo perché comprende tipologie di persone che non frequentiamo quasi mai ma anche perché (come abbiamo capito tutti da tempo) anche quelli che conosciamo, a volte, hanno comportamenti «on-line» molto diversi rispetto a quando li incontriamo dal vivo.
C’è un recente studio di Mohsen Mosleh, Cameron Martel, Dean Eckles e David Rand che dovrebbe farci riflettere. Anzitutto perché è partito da una domanda molto pratica. E cioè: quando un utente (in questo caso di Twitter) riceve una correzione pubblica a una fake news che ha pubblicato o anche solo condiviso, starà più attento nei suoi tweet successivi?
CHI PUBBLICA FAKE NEWS E VIENE SCOPERTO SI VERGOGNA?
Succedesse a me e alle persone che conosco, sarei pronto a giurare che ci vergogneremmo come ladri per essere stati ripresi per avere condiviso una fake news e faremmo tantissima attenzione a ogni nostra mossa digitale successiva. Questa ricerca, però, ci svela un altro scenario. Per arrivarci i ricercatori hanno creato una serie di profili con i quali hanno pubblicato 1.500 correzioni ad alcuni tweet con informazioni false di oltre un migliaio di utenti. I risultati fanno pensare: «Gli utenti di Twitter che hanno ricevuto una risposta che smentiva un'affermazione fatta in uno dei loro post, nelle 24 ore successive hanno pubblicato più contenuti da fonti poco affidabili».
Avete letto bene: chi è stato beccato a pubblicare notizie false non solo non si è vergognato minimamente di averlo fatto, ma il fatto di essere stato ripreso pubblicamente invece che frenarlo l'ha spinto ad aumentare la pubblicazione di contenuti falsi.
Il che ci porta a un punto nodale: come si corregge il comportamento di una persona che, se pescata sul fatto e sbugiardata, reagisce in maniera opposta a quello che ci aspetteremmo? Allargando il discorso: come facciamo a far cambiare idea a persone che non vengono minimamente toccate dai convegni, dagli studi, dalle analisi, dai libri e dai dibattiti (tutti benemeriti, per carità) sulle fake news?
Molti esperti sostengono che l’imponente e importante lavoro sulle fake news va fatto per quella che viene definita «la maggioranza silente dei social», cioè da quel numero enorme di persone che non lascia traccia della propria presenza digitale (non mette like, non commenta, non condivide) ma legge (e tanto) ciò che viene scritto nei post come nei commenti.
Per quel che vale anche io sono convinto che sia un lavoro indispensabile e che serva anzitutto alla maggioranza delle persone che frequentano i social, ma tutto questo non risponde minimamente alla nostra domanda: come si comunica con chi passa il proprio tempo pubblicando falsità sui social e non viene toccato dai «metodi tradizionali»?
SAPER RISPONDERE VELOCEMENTE, CON UGUALE FORZA, SENZA ESSERE BANALI
La questione è grande e mette in discussione il modo col quale ognuno di noi comunica oggi. A partire dal fatto che noi (noi giornalisti, noi professori, noi esperti) per comunicare usiamo le parole e i ragionamenti articolati quando in Italia ben 11 milioni di persone (fonte Ocse) non sono in grado di comprendere scritti mediamente complessi. E così non li raggiungiamo.
Non solo. Abituati come siamo ad usare tante parole per spiegare le nostre idee e le nostre posizioni ci stiamo dimenticando che una parte del mondo comunica sui social (e non solo lì) usando slogan, «meme» (cioè, foto, mini video o disegni che attirano l’attenzione degli utenti diventando virali), foto accompagnate da frasi brevissime, storie di Instagram e video di TikTok. Non ci vuole niente, per esempio, a creare un video di pochi secondi per attaccare la Chiesa, accusandola delle peggiori nefandezze, ma ci vuole una bravura tutt’altro che scontata (e che in larga parte dobbiamo ancora imparare) per saper rispondere in pochi secondi con uguale forza senza cadere in un banale (quando poco coinvolgente) «non è vero».
Noi possiamo anche andare avanti all’infinito con (ribadisco: i benemeriti) convegni, webinar, lezioni, laboratori e dibattiti sulle fake news, ma dobbiamo al più presto accettare che il futuro della comunicazione passerà anche dalla nostra capacità di essere sintetici ed efficaci. Di usare ogni mezzo «nuovo» (che ormai, a ben vedere, così nuovo non è) per arrivare a più gente possibile.
In caso contrario ci troveremo a parlare sempre più solo tra noi (noi bravi, educati, amanti delle buone letture e delle buone maniere) in ambiti sempre più ristretti. E quindi a diventare sempre di più marginali. Nel digitale e non solo lì.
Gigio Rancilio
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