The Brutalist: un capolavoro inattuale

Come sta accadendo molto spesso, almeno negli ultimi anni, la Mostra del Cinema di Venezia, che si tiene al Lido ogni settembre, riesce a diventare una rassegna del meglio che la cinematografia mondiale ha prodotto in un anno; ormai di frequente i film più interessanti che passano dalla Laguna finiscono poi fra le nomination degli Academy Awards – gli Oscar – che sono i premi più importanti della più grande industria del cinema, quella di Hollywood. In sala a Venezia abbiamo così visto Joker (2019), che ha ottenuto ben undici nomination, Nomadland (2020), leone d’oro e miglior film agli Awards 2021, e Povere creature (Poor Things, 2023), undici noms e quattro statuette vinte, giusto per citare qualche titolo.
Alla Mostra, questa volta, abbiamo potuto vedere un film straordinario, autenticamente spiazzante, di grandissima forza visiva e narrativa: si intitola The Brutalist (2024), e ha ricevuto il Leone d’argento per la regia di Brady James Monson Corbet, che ha firmato il film a soli trentasei anni, con all’attivo due altri lungometraggi (L’infanzia di un capo, del 2015, visibile su Apple TV; Vox Lux, nel catalogo di RakutenTV), e una vasta serie di interpretazioni da attore (ragazzino in Mysterious Skin, inquietante adolescente/assassino in Funny Games). Dopo la première americana, a dicembre, il film è ora in uscita anche in Italia.
Sottolineo la giovane età di Brady Corbet perché The Brutalist è un’opera insieme estremamente complessa e matura e anche incredibilmente ambiziosa per un autore al suo terzo film. In molti, all’uscita dalla proiezione veneziana, hanno pensato che meritasse il Leone d’oro, poi andato – forse più un omaggio alla carriera – al gelido e un po’ ideologico “primo film americano” di Pedro Almodovàr, La stanza accanto (The Room Next Door, 2024). La esile linearità del film di Almodòvar si è confrontata con la ricchezza multiforme di un’opera-mondo che non ha paura di affrontare temi giganteschi: insomma, il minimalismo di La stanza accanto contro il massimalismo di The Brutalist. Alla cerimonia degli Oscar – che si terrà il prossimo tre di marzo – vedremo se Brady Corbet otterrà i riconoscimenti che questo film merita.
Ma andiamo con ordine, spiegando perché The Brutalist è un film importante. Vale la pena dire che quest’opera ha caratteristiche del tutto peculiari. Innanzitutto la durata: si tratta tre ore e mezza, con incluso un “intervallo” programmato dal film stesso, che proietta una fotografia “d’epoca” e un countdown di quindici minuti. Non si tratta però di una serie distribuita in sala, ovvero una maratona di episodi distinti, ma di un organico, lunghissimo racconto che si distribuisce in due atti (“L’enigma dell’arrivo”; “Il nocciolo duro della bellezza”), e un epilogo, girato in stile finto-televisivo e ambientato alla Biennale d’Architettura del 1980, a Venezia. “Massimalista”, per così dire, e decisamente ambiziosa, non è solo la durata, ma anche il formato visivo: Corbet decide di girare utilizzando la tecnica VistaVision, una pellicola a schermo panoramico inventato dalla Paramount negli anni Cinquanta, che sono anche gli anni raccontati nel film. Per questa ragione il film sarà distribuito anche in sale che lo proiettano nel formato 70mm pensato dal regista, che trasmette perfettamente la sensazione della grandiosità epica del racconto.
In breve, il film racconta la vita del protagonista, l'ebreo ungherese László Tóth (uno straordinario Adrien Brody), architetto della Bauhaus scampato a Buchenwald, che emigra negli Stati Uniti. Nell'attesa che sua moglie Erzsébet (Felicity Jones) ottenga il visto per raggiungerlo, attira l'attenzione del ricco “mecenate” Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce) che gli commissiona un ambizioso progetto architettonico…
Ma è difficile dire esattamente di cosa parli il film. La trovata del regista e co-sceneggiatore (con la compagna Mona Fastvold) è quella di un biopic immaginario, che si ispira esplicitamente all’ “Enigma dell’arrivo” (come si intitola la prima parte del film) del Nobel per la letteratura V. S. Naipaul. Dentro un’opera-mondo visivamente fortissima (fin dalle prime immagini: la fuga dall’Europa dopo la fine della guerra e lo sguardo rovesciato sulla Statue of Liberty di fronte a Ellis Island, luogo d’approdo di milioni di migranti), vediamo scorrere la vita di un personaggio tragico, salvato dal destino ai campi di concentramento, sospinto fino alla terra della nuova libertà e votato alla realizzazione di un’opera grandiosa e quasi impossibile (come il film stesso). Dentro questo mondo nel quale ci troviamo immersi per quasi quattro ore i temi diventano plasticamente narrazione e visione: l’immigrazione e l’antisemitismo, la diaspora degli ebrei sopravvissuti ai campi, il rapporto fra la creazione artistica (un edificio pubblico che vuole essere edificato secondo i canoni del brutalismo del dopoguerra) e il potere del denaro (rappresentato nella figura del milionario Van Buren), che si risolve, letteralmente, in nuove forme di dominio e assoggettamento. Quest’ultimo è forse il tema che sta più a cuore all’autore Brady Corbet: la travagliata storia della realizzazione del grande edificio sognato da László riecheggia le vicissitudini di un progetto cinematografico monumentale, fuori misura, inseguito per dieci anni e infine – per nostra fortuna – realizzato. Un progetto esplicitamente inattuale in un’epoca, la nostra, di consumi brevissimi, snack, frammentari, incapaci ormai di farsi guidare e cullare dal respiro della grande narrazione.
(photo credit: locandina del film)
Massimo Scaglioni
Su VP Plus, il quindicinale online della rivista Vita e Pensiero, ha pubblicato gli articoli Aspettando gli Oscar 2020, Sanremo decostruito (da Sanremo), Nuovo Cinema Netflix, La religione (e l'Italia) come "brand".
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