VOGLIAMO DIRE ADDIO ALLA SCUOLA?

VOGLIAMO DIRE ADDIO ALLA SCUOLA?

13.06.2020
di Simone Biundo

L’anno scolastico 2019/20, spezzato a marzo dalle misure di sicurezza per il contenimento del Covid-19, ha rivelato impietosamente le fragilità di un sistema già da tempo in profonda crisi e bisognoso di spazi, persone, investimenti. Le scuole, gli insegnanti, gli studenti e le famiglie, hanno reagito e sono riusciti, nella maggior parte dei casi, ad accompagnare il corpo mutilo della scuola all’arrivo. A settembre le scuole riapriranno per circa 8 milioni di studenti. Ma come? E a che punto siamo?

Per capire meglio ripercorriamo gli ultimi quattro mesi del 2020. In Italia, le prime manifestazioni epidemiche si sono manifestate il 30 gennaio con il ricovero di due turisti cinesi. Il primo focolaio è stato rilevato il 20 febbraio. Da sabato 22 e nelle settimane successive le scuole di ogni ordine e grado hanno iniziato progressivamente a sospendere le lezioni.


Cosa è successo in seguito? Il caos. Il Ministero non ha offerto una guida istituzionale chiara ma, tra gli obblighi e linee guida, indicazioni e proposte contraddittorie, le decisioni sono state delegate per lo più alle singole scuole, ai Dirigenti e all’intraprendenza degli insegnanti, secondo l’abusato principio dell’autonomia scolastica sotto cui troppo spesso si cela la volontà di deresponsabilizzazione del Ministero. Il risultato non poteva che essere disomogeneo: alcune scuole già dai primi giorni hanno condotto lezioni di didattica a distanza, altre invece si sono trovate a dover rimandare la data d’inizio delle lezioni, anche per ragioni legislative non secondarie (come, per esempio, la privacy e l’utilizzo delle app da parte dei minori).

Un unico esempio, tratto dalla secondaria di primo grado in cui ho insegnato: solo dal 23 marzo, dopo varie sperimentazioni e cambiando tre applicazioni, ha avuto inizio ufficialmente la didattica a distanza, che è stata svolta fino al 10 giugno. Sempre per questioni di autonomia, ogni scuola ha riorganizzato il suo monte orario. Nella nostra secondaria, all’incirca, è stato dimezzato, con lezioni giornaliere di 4 ore a fronte delle 6 pre-Covid. Con un calcolo approssimativo, limitato a questo caso singolo, nel periodo che va da febbraio a giugno, gli studenti hanno usufruito del diritto costituzionale all’istruzione, con pienezza, solo per un mese (da febbraio a marzo), mentre da marzo a giugno con monte ore dimezzato (giorni totali di lezione: un mese e una settimana).

Certo, l’attivazione della didattica a distanza in una situazione emergenziale è stata l’unica possibilità: in questo modo gli insegnanti hanno ripreso il loro lavoro e gli studenti hanno occupato proficuamente le loro giornate, riattivando il processo di apprendimento interrotto.

Tutto bene dunque? No, perché solo dopo pochi giorni si è reso evidente che se gli alunni dentro la scuola sono tutti uguali, costretti nelle loro abitazioni invece non godono delle stesse opportunità. Da dove nasce questa diseguaglianza? Da quattro fattori: tecnologia, reddito, famiglia, disabilità.

Le scuole hanno provato a rimediare fornendo connessioni, tablet, computer. Ma, come è ovvio, non è bastato. E allora tutti quegli studenti con bisogni educativi speciali, con disabilità (oltre 260.000 in Italia) o provenienti da famiglie in difficoltà si sono trovati ad affrontare la scuola allo sbaraglio. Alcuni di loro, nonostante i tentativi di contatto, sono sostanzialmente scomparsi, aprendo la strada alla già altissima dispersione scolastica (dati MIUR).

La didattica di emergenza ha rinchiuso l’idea della scuola nella rete strettissima degli strumenti digitali e ha cancellato in un colpo l’integrazione, l’inclusione e decenni di ricerca pedagogica, rispedendo l’insegnamento nell’alveo della lezione frontale. L’ambiente di apprendimento si è impoverito, le didattiche alternative si sono scontrate con l’impossibilità di essere praticate fruttuosamente e l’incontro con l’altro si è smaterializzato.

Insegnare ed apprendere sono attività che si fondano sull’ascolto reciproco, sulla socializzazione, sulla condivisione delle conoscenze e delle emozioni, degli apprendimenti, delle intuizioni, del talento e delle debolezze. La didattica a distanza, per contro, insegna solo competenze digitali.

In un contesto simile, chi già partiva con un bagaglio di ottime competenze, in una condizione economica e familiare favorevole, ha visto rimanere indietro i più fragili che a loro volta hanno visto calpestati i loro diritti. Così il gruppo classe, faticosamente costruito, rischia di sfasciarsi e di diventare un insieme di monadi in uno scenario in cui il senso di comunità e l’educazione al confronto e tutti quegli elementi fondamentali per la crescita di una società rischiano di scomparire. Questo è, o dovrebbe essere, insopportabile non solo per un insegnante o un genitore ma per qualsiasi cittadino.

Nel frattempo, dalla cosiddetta fase 2 si è passati alla fase 3 e hanno riaperto le spiagge, i gonfiabili, i parco giochi, le frontiere, gli aeroporti, i ristoranti. Non la scuola. Si riparte a settembre, forse. Il dibattito sulla ripresa si è acceso, le piazze di protesta hanno iniziato a riempirsi, e le Regioni minacciano, secondo un copione ormai noto, di seguire linee guida diverse da quelle governative, complice anche la mancanza di una comunicazione istituzionale precisa.

Le prime indicazioni arrivate dal Ministero non prevedono niente di buono ma un ulteriore depauperamento dell’offerta formativa. È evidente che riaprire gli istituti in sicurezza non sia facile tuttavia l’impressione è che invece di attrezzarsi si stia rimandando il problema, delegando alle scuole l’organizzazione, come si è fatto con la didattica a distanza, giocando al gioco delle autonomie.

Tralasciando le infelicissime uscite del Ministro, come la didattica mista con metà studenti a scuola e metà a casa o l’ipotesi di rinchiudere gli studenti dentro barriere di plexiglas, dai documenti e dalle dichiarazioni sembra ci sia l’intenzione di riprendere la didattica in presenza ma con turnazioni del gruppo classe, con il taglio del tempo pieno e del tempo scuola. In questo modo il tempo previsto per una lezione passerebbe da 60 a 40 minuti, così da accumulare ore di lezioni in più da assegnare agli stessi insegnanti e risparmiare sull’eventuale assunzione di nuovi docenti, considerando come sempre la scuola come una spesa e non come una risorsa.

In tutto questo, il concorso straordinario e ordinario sono stati rimandati a data da destinarsi, offrendo ancora una volta una scuola precaria, retta da precari che il prossimo anno scolastico inizieranno in scuole nuove, con studenti sconosciuti e destinati a un insegnamento parziale.

La soluzione, tuttavia, ci sarebbe: stanziare fondi, cogliere l’occasione storica di cambiare radicalmente la scuola, garantire la sicurezza e il rispetto degli artt. 3, 33 e 34 della nostra Costituzione.

Ogni classe dovrebbe essere divisa e i componenti dovrebbero essere tra i 10 e i 12 alunni, numero che da solo garantirà finalmente, oltre l’emergenza Covid-19 (che non può diventare una scusa), una qualità dell’istruzione molto più alta del passato. La scuola dovrebbe essere aperta alle lezioni al mattino e al pomeriggio, garantendo la turnazione delle classi e la sanificazione degli spazi.

Per fare questo è opportuno assumere tutti gli insegnanti e il personale Ata necessario: 206mila insegnanti in più, secondo «Tuttoscuola». In che modo? Data la cronica e imbarazzante assenza di un concorso, anche quest’anno si potrebbe ricorrere alle terze fasce, stipulando contratti a tempo determinato che immetterebbero giovani neolaureati che si troverebbero a lavorare in una situazione decisamente più favorevole, con classi meno numerose e più facilmente gestibili, di tutti i precari che in questi ultimi anni hanno tenuto in piedi la scuola.

È indubitabile che questa soluzione richiederebbe una valanga di soldi, probabilmente più di 5 miliardi, tuttavia la scuola è il futuro di ogni paese, anche del nostro. La domanda è allora che paese vogliamo essere, quali sono le nostre priorità e quale futuro vogliamo.

Il mondo è complesso e insegnare significa educare e formare alla complessità, al dialogo, alla ricerca, all’esperienza sociale, alla cittadinanza e ai valori democratici, per accompagnare la persona verso l’età adulta. La scuola è un microcosmo sociale, come ha scritto Durkheim, oltre che l’ineludibile ponte tra la famiglia e la società. Questo ponte ha bisogno di cura. A meno di non voler fargli fare la fine di quel ponte immaginato da Kafka: torturato dal bastone di un passante, si volta per guardare il suo aguzzino e girandosi cade, precipitando nell’abisso, dilaniato dai ciottoli aguzzi che lo avevano sempre fissato da sotto l’acqua scrosciante.

Simone Biundo

Simone Biundo (Genova, 1990) è insegnante di lettere a Genova in una Scuola secondaria, è editor della rivista «VP Plus». Per Interno Poesia è uscito il suo primo libro di poesie, "Le anime elementari" (2020). Con Damiano Sinfonico e Sara Sorrentino cura la rassegna nazionale di poesia contemporanea , poet. - a Genova.

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