IA vs l’Antigone di Sofocle

Molte sono le cose tremende, ma nulla è più tremendo dell’uomo, dichiarano i cittadini di Tebe, nel celebre Primo stasimo dell’Antigone di Sofocle. Il termine greco originale, deinos, come ampiamente commentato dai critici, è un vocabolo a due facce, che nel dirsi smentisce sé stesso, indicando che qualcosa è sia ammirevole che spaventoso, sia stupendo che terrificante.
L’uomo è una meraviglia che fa paura (come ha magnificamente tradotto Massimiliano Civica), osserva Sofocle, perché in esso c’è una volontà di potenza incontenibile, che lo mette in grado di governare la natura e la società: con mente accorta, l’uomo cattura, domina, aggioga, ammonisce con sgomento il coro, per continuare con stupore febbrile: E apprese la parola e il vento del pensiero e l’impulso al vivere civile.
Il motore della potenza dell’essere umano non è la forza fisica ma l’intelligenza: è questa che lo rende signore del mondo, innalzandolo sul pericolo e sul bisogno. La sua strategia di sopravvivenza non è perciò l’istinto ma l’apprendimento: l’uomo impara come fuggire i dardi a cielo aperto del gelo inospitale, dei rovesci di pioggia, moltiplicando le sue risorsee mai senza risorse affronta il futuro. Intelligenza è misurarsi con le proprie carenze e vulnerabilità e trovare vie d’uscita (ha inventato rimedi a malattie inguaribili) e strumenti di compensazione: Oltre ogni speranza signoreggia l’intelligenza che escogita tecniche.
Tecniche e risorse sono le due nozioni chiave del ragionamento sofocleo: la volontà di potenza dell’uomo è una fonte inesauribile di strumenti di controllo e possibilità. Il vento del pensiero produce incessantemente nuove soluzioni che convertono la minaccia del futuro in salvezza, proteggendo dai pericoli (dardi e malattie), stabilendo quella compagine sociale che è fonte primaria di benessere e sicurezza.
Ma questa stessa potenza meravigliosa, che l’uomo contempla con ammirazione e stupore fa anche paura: c’è in essa un’ambiguità costitutiva, essendo fonte di salvezza (oltre ogni speranza) ma anche forza predatoria (cattura, domina, soggioga). Il vento del pensiero, dell’intelligenza umana, è sempre sul punto di cambiare direzione, trasformandosi in operatore di distruzione, che porta morte e sottomissione, cessando di essere agente di vita e di emancipazione dal bisogno e dalla dipendenza materiale, facendo della strategia di sopravvivenza una via di dominio, degradando la potenza in prepotenza.
La sua emancipazione dall’istinto rende l’intelligenza umana una potenza eticamente libera, a disposizione della volontà e della responsabilità dei suoi titolari, una potenza che inclina ora al male, ora al bene e che corre sempre il rischio di abbracciare il primo per compiacere la propria audacia temeraria. Quell’oltre che spinge l’uomo a sfidare coraggiosamente la disperazione, l’impossibilità fattuale, per trovare rimedio all’inguaribile, può convertirsi in sfida fine a sé stessa, pura sete di potenza per la potenza, che si svincola dal rispetto delle leggi e della giustizia giurata nel nome degli dei. L’intelligenza che arriva allora a volere solo sé stessa e la propria supremazia, degrada i rapporti interumani e con la natura a pure relazioni di dominio (cancella la legge, il diritto), e annulla ogni idea di giustizia come rispetto del sacro: intuizione razionale di un bene non storicamente contingente, che al di là di ogni credenza in un dio trascendente mette la storia in rapporto etico e cognitivo con la propria autotrascendenza.
Quest’intelligenza violenta, irresponsabile ed empia che fa della propria potenza un fine in sé stesso, strumento di asservimento della natura e dell’altro uomo, portatrice di morte e non di vita, di sottomissione e non di emancipazione e salvezza, non è la vittoria della tecnica sull’uomo, ma il tradimento dell’uomo a sé stesso, il suo soccombere al lato buio della propria costitutiva ambiguità. A questa deriva, sempre incombente come delirio di onnipotenza prometeica, l’intelligenza umana – che è sempre congiuntamente naturale e culturale, spontanea e artificiale, fatta di intuizione sorgiva e apprendimento, talento individuale e memoria collettiva, capacità mentale e attrezzatura strumentale – può sottrarsi solo mantenendosi ancorata alle leggi della città – la sostanza etica delle relazioni interumane - e al loro fondamento nel nucleo sacro della convivenza: il rispetto di una dignità della persona che nessun essere umano istituisce e può perciò manomettere.
Meravigliosa opportunità e rischio che fa paura, l’intelligenza artificiale è perciò solo l’ennesimo appuntamento dell’uomo con sé stesso, nella propria tremenda capacità di portare salvezza e distruzione. Se usciremo sconfitti da questo confronto fatale, facendoci ‘sostituire’, la colpa non sarà delle macchine, ma solo la nostra.
Come sottolineato da Alfonso Berardinelli nel suo contributo per Vita e Pensiero Plus, la civiltà umana si autodistruggerà se sceglierà la strada dell’estraneazione produttivistica, che assolutizza la crescita materiale, l’accumulazione della ricchezza e la performatività tecnica sulla manutenzione della sostanza culturale e spirituale della convivenza civile e dell’esperienza personale, sacrificando la complessità e la ricchezza dell’intelligenza umana ad un riduzionismo ciecamente economicistico, violentemente estrattivo. Se la meraviglia paurosa dell’intelligenza umana perde l’impulso del vivere civile, il rispetto delle leggi e della giustizia degli dei, custoditi dalla memoria collettiva di secoli di pensiero, di fede, di creatività artistica e scientifica, essa sarà ingoiata nell’abisso di un presente privo di passato e perciò di futuro, privo di coscienza e perciò di volontà: un presente-macchina che genera prodotti ma non creazioni, informazioni ma non conoscenza, analisi ma non comprensione, potenza ma non libertà.
Molte sono le cose tremende,
ma nulla è più tremendo dell’uomo,
che valica il mare candido di schiuma
al soffio tempestoso del vento del Sud,
fendendo il fragore delle onde,
e travaglia al giro degli aratri, di anno in anno,
la più eccelsa tra gli dei,
la Terra eterna, infaticabile,
e la rivolta con la stirpe dei cavalli.
E serrandoli nei lacci delle reti,
l’uomo, con mente accorta,
cattura la razza spensierata degli uccelli
e i popoli delle fiere selvagge
e le creature marine;
e con le sue astuzie
domina gli animali selvatici che vagano sui monti,
e aggioga per il collo
il cavallo crinito, il toro infaticabile, montano.
E apprese la parola
e il vento del pensiero
e l’impulso al vivere civile
e come fuggire i dardi a cielo aperto
del gelo inospitale, dei rovesci di pioggia,
moltiplicando le sue risorse.
Mai senza risorse
affronta il futuro, e soltanto dall’Ade
non avrà scampo;
ma ha inventato rimedi
a malattie inguaribili.
Oltre ogni speranza
signoreggia l’intelligenza
che escogita risorse,
e inclina ora al male, ora al bene:
e si innalza nella città
quando serba rispetto per le leggi
e per la giustizia giurata nel nome degli dei.
Ma è fuori dalla città
chi frequenta il male
per compiacere la sua audacia temeraria.
Stia lontano dal mio focolare,
stia lontano dalla mia amicizia,
colui che agisce in questo modo!
Questo prodigio straordinario mi sconvolge.
Sofocle, Antigone (tr. it di A.Tonelli. Torino: Bompiani 2014, pp. 785-789)
Teresa Bartolomei
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